sabato 20 ottobre 2018

YEMEN -L’APPELLO: ‘FERMATE LE ATROCITÀ DEI BOMBARDAMENTI SAUDITI. STOP ALLE ARMI ITALIANE’

Pochi giorni fa il Parlamento Europeo ha espresso parole di condanna per i devastanti impatti che il conflitto in corso in Yemen ha sulla popolazione civile. Lo ha fatto chiedendo anche la creazione di un embargo sulla vendita di armi. Ma va detto subito che la richiesta di fermare le forniture armate alle parti in conflitto era già stata avanzata almeno quattro volte negli ultimi anni. E per quattro volte, puntualmente ignorata.

Ora, davanti alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, esperti della società civile italiana hanno ancora descritto le condizioni inumane in cui sopravvive, ormai, la popolazione civile yemenita. Le responsabilità della drammatica situazione, attribuibili, in parte, alle forniture militari italiane, sono state descritte genericamente e in dettaglio da esponenti di Amnesty International Italia, Oxfam Italia, Save The Children Italia, Medici Senza Frontiere e Rete Italiana per il Disarmo in rappresentanza di una più ampia Coalizione attiva da tempo sul tema e che comprende il Movimento dei Focolari, Rete della Pace e la Fondazione Finanza Etica.

Ad aprile 2018 è invece stata presentata presso la Magistratura competente, in collaborazione con Ong yemenite e tedesche, una denuncia di violazione della legislazione nazionale ed internazionale che regola l’export di sistemi militari.

Il recente ulteriore aggravamento della situazione (accertato anche dal Report di Esperti ONU pubblicato poche settimane fa) ha indotto la Coalizione della società civile italiana a riprendere le attività collettive: l’audizione che si è svolta davanti alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati è dunque il primo passo di una serie di iniziative nei confronti del Parlamento.

Nei tre anni e mezzo di conflitto nello Yemen sono stati compiuti crimini orrendi, nel pieno disprezzo del diritto internazionale: decine di attacchi indiscriminati contro civili e obiettivi civili, uso di armi messe al bando a livello globale, impiego di bambini soldato, blocchi e ostacoli all’arrivo degli aiuti umanitari.

Non può essere ignorata, nel contesto, la gravissima situazione dei diritti umani all’interno del Paese che bombarda sistematicamente lo Yemen, l’Arabia Saudita, dove la repressione del dissenso con lunghe pene detentive, il massiccio uso della pena di morte e le pene corporali sono legge di Stato.
Ultima vergogna “ anche il sospetto dell’esecuzione extragiudiziale di un giornalista e dissidente all’interno del consolato saudita a Istanbul” – ha rincarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

In Yemen, oggi, ogni bambino, ogni uomo, ogni donna indistintamente e in ogni momento del giorno e della notte possono morire per mano del nemico. “La sofferenza del popolo yemenita è un affronto al nostro senso di umanità: il fallimento delle potenze mondiali nel riaffermare qui i valori fondanti della civiltà, una vergogna” – ha detto Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia.

Quante persone devono ancora morire perché si abbia un’ammissione di complicità da parte delle potenze che alimentano questa guerra?

La Coalizione di organizzazioni della società civile ha cercato insistentemente in queste ultime settimane un dialogo con il Governo presieduto da Giuseppe Conte, ma non ha ottenuto risposta, nemmeno a tentativi di contatto formale e diretto. Eppure una delle due forze di maggioranza, il Movimento Cinque Stelle, ha già avanzato anche in questa Legislatura alcune proposte di riforma della Legge 185/90 che regola l’export militare. Non solo, nella scorsa Legislatura (solo un anno fa) aveva presentato e votato una Mozione molto vicina alle proposte di Ong e Reti della società civile, nella quale veniva pure evidenziata la responsabilità dell’Italia per il rifornimento di armamenti ad alcune delle parti coinvolte nel conflitto yemenita, in particolare all’Arabia Saudita e agli EAU)

Voti concordi sono stati espressi dagli Europarlamentari del Movimento anche nel recente dibattito a Bruxelles.

Tra le possibili iniziative che il nostro Paese potrebbe e dovrebbe intraprendere, oltre ad un immediato stop nella vendita di armi, v’è la promozione verso Paesi non firmatari della Safe Schools Declaration e la pressione, l’insistenza sia aperta che diplomatica per la protezione degli edifici scolastici e universitari dall’uso militare e dal bombardamento. Non sarebbe certo azione inutile e inascoltata dato il forte ruolo internazionale che l’Italia si propone di avere in Yemen.

Una contraddizione davvero rispetto all’invio massiccio di armi: “Negli ultimi anni sono stati rilasciate licenze di export militare per centinaia di milioni di euro, soprattutto per bombe le cui consegne sono state verificate nei dettagli dalle ONG e dalla stampa nazionale ed internazionale – denuncia Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. Una complicità nell’orrore che il nostro Paese dovrebbe respingere, ritenere inaccettabile, oltre che contraria alle norme nazionali ed internazionali che l’Italia dovrebbe rispettare. La richiesta forte di un cambio di direzione e di uno stop alle forniture militari è anche venuta dalla recente Marcia della Pace Perugia-Assisi: oltre 70.000 persone hanno chiesto che “il Governo fermi le consegne, come è nelle sue facoltà”.

Gli ordigni che esportiamo hanno impatti devastanti non solo diretti , con le uccisioni, in particolare,di civili, ma anche indiretti, nel creare una crisi umanitaria già gravissima e che potrebbe ulteriormente degenerare.

Oltre undici milioni di bambini in Yemen stanno vivendo esperienze atroci a cui nessun essere umano dovrebbe essere sottoposto. Sofferenze che segneranno per sempre la loro salute fisica e mentale. Vivono sotto i bombardamenti, malnutriti e senza la possibilità di accedere a beni e servizi di prima necessità. Le loro scuole sono state distrutte, il loro futuro è stato compromesso. “È inaccettabile che questi bambini perdano la loro vita e il loro futuro in una guerra di cui sono solo vittime innocenti, dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per proteggerli, per porre fine alla loro sofferenza e per fermare questa follia” commenta Maria Egizia Petroccione, responsabile Advocacy Internazionale per Save The Children Italia.

Tre anni di conflitto hanno gettato lo Yemen in una delle peggiori crisi umanitarie al mondo.

Il sistema sanitario è al collasso: si stima che metà degli ospedali siano attualmente inutilizzabili perché colpiti dai combattimenti, mentre le strutture ancora funzionanti soffrono della carenza di personale e attrezzature. Si muore ogni giorno di patologie facilmente prevenibili come il colera, il morbillo, la difterite o facilmente curabili come polmoniti, malaria e malnutrizione. Al suono delle esplosioni vediamo mamme scappare con i loro figli ricoverati nei reparto di pediatria. Ha ragione Roberto Scaini, medico di MSF: “È inaccettabile che cliniche mobili ed ospedali diventino bersagli del conflitto”.

D.Bart.

martedì 16 ottobre 2018

KHASHOGGI,: “TROVATE PROVE DELL’OMICIDIO NEL CONSOLATO SAUDITA AD ISTAMBUL”





Dalla Turchia arriva la conferma:“trovate prove certe dell’uccisione di Jamal Khashoggi durante la seconda ispezione al consolato saudita di Istanbul». Alcuni funzionari del Governo Erdogan, rimasti per ora anonimi, hanno riferito che tutti gli elementi per capire cosa sia successo al giornalista anti-Riad «si trovano proprio in consolato, è stato ucciso proprio lì». Il Presidente turco, inoltre, ha confermato che «alcune pareti dell’edificio sarebbero appena state ripitturate, forse per coprire le tracce». Nel frattempo, sarebbe andato per il verso giusto il colloquio tra gli Stati Uniti e i vertici di Riad , senza strappi, per ora, tra alleati: «Ringrazio il re per il suo impegno a sostenere un'inchiesta completa, trasparente e tempestiva», ha spiegato l’inviato di Trump. Anche il principe MBS, considerato, pur senza prove, il vero mandante dell’operazione, ha commentato che i rapporti bilaterali Usa-Arabia sono più forti di prima: «Siamo forti e antichi alleati. Affrontiamo le nostre sfide insieme. Così in passato, oggi, domani». 


NUOVE PERQUISIZIONI IN CORSO
Nonostante la cautela degli Stati Uniti dovuta agli storici rapporti che Washington intrattiene con Riad, alleato privilegiato in Medio Oriente, sulla monarchia saudita la pressione della stampa internazionale è schiacciante. 
Per indagare a fondo sulla morte di Jamal Khashoggi, si apprende dalle autorità di Ankara che presto potrebbe essere disposta una nuova perquisizione nella sede del consolato arabo in Turchia, questa volta alla ricerca di eventuali materiali tossici dato che, come è stato avanzato da varie fonti, il giornalista dissidente, nemico giurato di Mohamed Bin Salman, potrebbe essere stato sciolto nell’acido dopo essere stato ucciso e fatto a pezzi al termine di un interrogatorio finito male. A parlare della nuova perquisizione è stato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, aprendo un nuovo fronte polemico su Riad che ha presto cambiato ancora versione sulla sorte toccata a Khashoggi, vicenda della quale la stessa ambasciata ha continuato  a dirsi all’oscuro di tutto.
Dall'Arabia Saudita, giunge notizia che  Jamal Khashoggi sarebbe stato ucciso o da funzionari corrotti, o da comuni criminali. Riad infatti afferma che Khashoggi sarebbe uscito vivo dal consolato, libero di andare.

D.Bart

giovedì 30 agosto 2018

Conflitto nello Yemen: l'ONU accusa tutte le parti in causa di abuso dei diritti umani




Le Nazioni Unite, finalmente interessate anche alla guerra in Yemen, denunciano massacri e abusi perpetrati - da tutti- nei confronti di un popolo stremato e dimenticato.
La coalizione guidata dai sauditi, che sta combattendo i ribelli Houthi in vaste aree del paese, bombarda quotidianamente e senza sconti strade, quartieri, mercati, scuole e ospedali.
Il rapporto ONU rileva così che tutte le parti in conflitto hanno compiuto atti che potrebbero infrangere la legge internazionale. Anche le potenze straniere vengono criticate per aver contribuito ad armare la coalizione e per i danni causati dagli attacchi aerei. Perciò anche l’Italia ha la sua parte di responsabilità.
Le Nazioni Unite chiedono l’avvio di un processo internazionale che faccia luce su quanto avviene nello Yemen e che inchiodi alle proprie responsabilità chi, durante il conflitto ancora in corso, abbia commesso crimini di guerra. Il rapporto che ha risvegliato interesse nei confronti di un massacro sempre ignorato, è firmato dagli esperti indipendenti del Group of Regional and International Eminent Experts on Yemen. Il mandato dell’ ONU era quello di analizzare i fatti avvenuti nello Yemen tra il settembre 2014 ed il giugno 2018, così da poter verificare la legalità della guerra in corso. Il conflitto militare che si svolge ormai da più di due anni, vede i ribelli Houthi sciiti contrapposti ad una coalizione sunnita formata da ciò che rimane dell’ex governo yemenita e dai suoi alleati regionali, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.
Secondo le indagini preliminari svolte, i bombardamenti aerei, così come gli embarghi imposti e le operazioni militari condotte, comporterebbero una “violazione dei principi di distinzione,
proporzionalità e precauzione” codificati nello jus in bello, ovvero nel diritto umanitario internazionale. In parole povere, come si evince dalle dichiarazioni di Kamel Jendoubdi, che ha gestito i lavori del gruppo di lavoro, sembra che gli sforzi della coalizione sunnita, volti a minimizzare le vittime civili, siano stati pressoché nulli.
Infatti, secondo le analisi condotte da Al Jazeera, in collaborazione con lo Yemen Data Project, almeno un terzo dei 16 mila raid aerei considerati, avrebbe avuto bersagli non militari. Le bombe, spesso di produzione occidentale ed in alcuni casi italiana, sganciate sul suolo yemenita avrebbero quindi distrutto non solo edifici di interesse militare ma anche ospedali, luoghi di culto e strutture cruciali per l’approvvigionamento di energia ed acqua. Proprio nel report, le nazioni che stanno fornendo armi alla coalizione degli emiri sunniti, vengono invitate a fermare immediatamente la vendita di qualsiasi tipo di armamento.
Da una parte quindi il diritto umanitario sarebbe stato violato per le sproporzioni delle operazioni militari condotte. Dall’altra perché, come aggiunge il gruppo di esperti, vi sarebbero state ripetute violazioni dei diritti umani fondamentali, su tutti quello alla vita, che avrebbero visto centinaia di migliaia di civili inermi e non combattenti, essere torturati, privati delle libertà fondamentali e del necessario per sopravvivere.
Le stime fornite dal documento parlano di almeno 6.600 civili uccisi e 15.500 feriti. Stime approssimative perché, probabilmente, nella realtà questi numeri sarebbero “significativamente più elevati”. Perché la guerra uccide in vari modi : non solo proiettili o schegge di bombe, ma anche inedia e malattie.
Ciò che molti invocano e come si augura il gruppo di lavoro che ha redatto il documento, è l’avvio di un processo, condotto da una corte penale internazionale istituita ad hoc, per accertare se effettivamente i quadri militari del governo yemenita e della coalizione formata da Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti abbiano commesso Crimini di Guerra. La lista dei possibili responsabili, potenzialmente perseguibili, è già stata stilata e consegnata all’Alto Commissario per i Diritti Umani.
Nel frattempo i bombardamenti continuano: le donne, i bambini, i giovani e i vecchi muoiono. Come ha detto ad Al Jazeera uno degli autori del documento, Charles Garraway:”Nonostante la gravità della situazione” si continua a vedere “una completa indifferenza per la popolazione dello Yemen. Questo conflitto ha raggiunto un picco, senza nessuna luce in fondo al tunnel”.
Nello Yemen sono in corso una guerra ed una crisi umanitaria ignorate. Non dimenticate, ignorate.
D.Bart.

domenica 6 maggio 2018

LIBIA: torture e stupri, violenze nei campi profughi. Guardia Costiera che spara e minaccia.

Nei centri governativi libici, proprio come avviene nei lager clandestini, si compiono  «rapimenti per estorsione, lavori forzati e uccisioni illegali» il virgolettato ricopia un passaggio del documento che il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha trasmesso al Consiglio di sicurezza.
Il rapporto racconta anche la strage occultata dei migranti fucilati da militari libici in un centro di detenzione; i soprusi  della Guardia costiera e le crudeltà dei funzionari incaricati del contrasto all’immigrazione illegale. Un documento agghiacciante, che smentisce la narrazione di una Libia in via di stabilizzazione, con i profughi accolti, accuditi e trattati con più umanità.
La realtà, purtroppo, ha la faccia dolente e tumefatta di  migranti quotiduanamente sottoposti a detenzione arbitraria, torture, stupri e verie forme di violenza sessuale. Questo è stato costretto a documentare il segretario generale, a conclusione delle inchieste di Unsimil, la missione Onu a Tripoli, dovendo ammettere che
i carcerieri, nella maggior parte dei casi, indossano divise appartenenti a forze armate finanziate, anche, dall’Italia e dall’Europa.

Gli aguzzini - scrive il segretario generale - "sono funzionari statali, gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e bande criminali».
L'umanità nelle che nelle ultime settimane è riuscita a toccare le ciste della Sicilia è fatta di migranti ammalati o gravemente malnutriti. Quasi tutti hanno vissuto la brutale prigionia dei centri governativi. I loro racconti raccapriccianti raccolti dai soccorritori dopo e durante gli sbarchi vengono puntualmente confermati
dalle 17 pagine del dossier. «L’Unsmil ha visitato quattro centri di detenzione supervisionati dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale – scrive Guterres – e ha osservato un grave sovraffollamento in condizioni igieniche spaventose ».
I prigionieri «erano malnutriti e avevano limitato o nessun accesso alle cure mediche».
E tutto ciò avviene anche negli ultimi mesi,  nonostante in Libia piovano i cosiddetti "aiuti", un bel torrente di denaro che l’Europa versa per il soccorso ai profughi ospitati nei campi.
Va così che il capo delle Nazioni Unite non se la senta di affermare che i guardacoste libici siano  in grado di salvare e assistere i migranti garantendo gli standard minimi dei diritti umani. Ma cosa intende fare? Produrrà risposte concrete la missione internazionale, che continua a documentare «la condotta spregiudicata e violenta da parte della Guardia costiera libica nel corso di salvataggi e/o intercettazioni in mare»?

Al momento, tutto ciò che se ne ricava è una sorta di supplica contenuta nello stesso documento : "La situazione dei migranti e gli abusi che subiscono in Libia e mentre tentano di attraversare il Mediterraneo – è l’appello del segretario generale - continuano a farci chiedere un’azione congiunta, concertata e urgente».
Segue, quindi, l'elenco della nefandezze, tipo quella del novembre scorso quando «i membri della Guardia Costiera hanno picchiato i migranti con una corda e hanno puntato le armi da fuoco nella loro direzione durante un’operazione in mare».

I funzionari del Palazzo di Vetro documentano così l’uso di forza eccessiva e illegale da parte dei funzionari del "Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale". La violenza come condotta metodica, crudeltà tollerate, finache consentite, pur di riuscire a governare le prigioni stracolme di profughi. E come, appunto, se non attraverso l'immunità? La condizione finora garantita a sorveglianti stipendiati da uno Stato di cui restano solo cocci.
«Il 19 novembre, durante un raid su un campo di migranti improvvisato nella zona di Warshafanah, membri dei gruppi di Tajura e Janzur, affiliati al Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale, hanno aperto il fuoco sui migranti senza fornire alcun preavviso verbale, provocando una serie di morti e feriti». In questo caso Le Nazioni Unite non sono riuscite a raccogliere informazioni dettagliate sul numero di persone coinvolte. Testimoni affermano che nella prigione a cielo aperto erano recluse centinaia di persone.  Non si tratta di informazioni per sentito dire, raccolte attraverso organizzazioni non governative o attivisti locali, ma di testimonianze ottenute personalmente dai funzionari dell’Onu.
« Non se la passano meglio i cittadini libici, esposti a ogni genere di rischio. Dagli omicidi politici alle detenzioni arbitrarie a causa del perdurante conflitto. Compreso «il reclutamento e l’uso di bambini da parte di gruppi armati, così come la loro detenzione - denuncia Antionio Guterres –sulla base della loro presunta o effettiva associazione con altre parti in conflitto».

Il censimento, effettuato dall’agenzia Onu per i migranti (Oim), ha documentato la presenza di 627 mila stranieri in Libia, ma secondo Guterres le stime reali oscillerebbero tra i 700mila e il milione.

D.Bart.

venerdì 20 aprile 2018

Siria: giuristi tedeschi contro i missili Usa. Violato diritto internazionale.

Secondo i giuristi della Camera dei Deputati tedesca i missili lanciati delle forze occidentali in Siria hanno violato il diritto internazionale.
Dopo l'attacco dei giorni scorsi, fortemente condannato da Russia ed Iran, la diplomazia internazionale appare disorientata mentre si muove nervosamente alla ricerca di una strategia chiara.

"L'uso della forza militare contro uno stato, al fine di punire la violazione da parte di tale stato di una convenzione internazionale, rappresenta una violazione del divieto di ricorrere alla violenza prevista dal diritto internazionale".

Scrivono così, nero su bianco, gli esperti del Bundestag rispondendo ad una interrogazione di Die Linke, partito della sinistra radicale, contrario ai bombardamenti.
I giuristi interpellati basano le proprie convinzioni su una Dichiarazione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1970, in cui si sottolinea "il dovere degli Stati di astenersi, nelle loro relazioni internazionali, dall'uso del vincolo militare".
Ma non solo.
Ricordano anche che in passato il Consiglio di sicurezza dell'ONU aveva respinto le rappresaglie armate, definendole "incompatibili con gli obiettivi e i principi delle Nazioni Unite".
Secondo lo stesso documento anche la ragione legale avanzata dalla Gran Bretagna, che ha partecipato all'intervento a fianco degli Stati Uniti e della Francia, non sarebbe "convincente",
Londra sostiene che la legge internazionale consente, eccezionalmente, azioni di ritorsione al fine di prevenire ulteriori sofferenze umane. E il presunto uso di armi chimiche da parte delle truppe del presidente Bashar al-Assad ben rappresenterebbe tale condizione.
Ma, sempre secondo gli esperti tedeschi, sarebbe stato più corretto chiedersi  "se gli attacchi militari sono davvero appropriati per prevenire ulteriori sofferenze" in Siria.
Il conflitto, che dal 2011, in una guerra fratricida, vede contrapposti siriani pro o contro il regime di Assad, ha causato più di 350.000 morti,  milioni di sfollati e rifugiati.

Il 14 aprile scorso, Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno lanciato sulla Siria i missili Cruise che hanno distrutto  tre siti siriani presumibilmente usati per lo studio e la produzione di armi chimiche. L'azione, annunciata ufficialmente dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, non ha causato vittime. Com'era del resto nelle intenzioni degli attaccanti, secondo i quali la rappresaglia doveva essere solo un avvertimento nei confronti di Assad, considerato resonsabile del presunto attacco chimico che il 7 aprile, a Douma, nei sobborghi di Damasco, ha provocato la morte di 34  persone.
L'attacco, sferrato da Usa, Francia e UK, è avvenuto senza il consenso del Consiglio di sicurezza dell'ONU, dove siede anche la Russia, alleata del regime di Assad. La Germania non ha partecipato ma l'ha sostenuta, dicendo che era "necessaria e appropriata". L'opinione degli avvocati della Camera dei Deputati è un colpo imbarazzante per Angela Merkel, in un paese molto a cavallo sul rispetto delle regole legali.
Ci sono molte ragioni per opporsi a un intervento militare straniero in Siria, a prescindere che sia degli Stati Uniti, della Russia, dell’Iran o della Turchia. Nessuno di questi paesi agisce nell’interesse dei siriani, della democrazia o dei diritti umani. Le bombe straniere non portano pace e stabilità, ma un'alternativa all'intervento esterno si dovrà trovare per proteggere la popolazione civile dai massacri.
Assad, che ha ereditato una dittatura dal padre e non ha mai organizzato né vinto elezioni libere, riesce a riconquistare il territorio perduto solo grazie all'intervento dei bombardamenti stranieri, aggressioni feroci che uccidono, mutilano, straziano inermi civili.
Tutti sembrano aver dimenticato che gli Stati Uniti bombardano la Siria dal 2014. Nella campagna per la liberazione di Raqqa dall'Isis  più di mille civili sono stati uccisi. Secondo le stime delle Nazioni Unite, l’80 per cento di Raqqa è oggi inabitabile.

Infine, nessuno ricorda che Assad ha appoggiato la prima guerra del Golfo; partecipato al programma illegale di extraordinary renditions della Cia, in cui presunti terroristi venivano interrogati e torturati in Siria per conto dell’agenzia di spionaggio statunitense. E quel che è peggio, si vuol dimenticare che il dittatore ha torturato a morte migliaia di oppositori pacifici, laici e democratici, dopo averli stipati nelle carceri.

Oltre alle decine di siriani che ogni giorno vengono brutalmente uccisi, migliaia di civili continuano a scappare dalle proprie città, ad abbandonare le abitazioni dove sono cresciuti e che, forse, non rivedranno mai più.

D.Bart.

domenica 15 aprile 2018

GLI INTERESSI DI CHI VUOLE LA GUERRA IN SIRIA: PERCHÉ USA, UK, FRANCIA SCENDONO IN CAMPO CONTRO ASSAD.


Proprio ora! Ora che i gruppi ribelli anti-Assad hanno perso la guerra, le grandi potenze occidentali decidono di intervenire personalmente contro la Siria.

PERCHÉ?
"Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Arabia Saudita hanno perso la guerra sul campo", scrive Naman Tarcha, giornalista e conduttore televisivo siriano, "dopo aver sostenuto i gruppi armati, adesso si muovono loro militarmente nell'ultima occasione che gli rimane per quello che è il loro scopo sin dal 2011, il regime change siriano, eliminare Assad".
Ma quali interessi sottenderebbero una volontà per molti versi distruttiva?
Per capirlo occorre partire  dalla posizione geografica della Siria, punto strategico più importante del Medio Oriente, porta spalancata sull' Europa e, dunque, territorio sul quale da sempre si concentrano gli interessi di Gran Bretagna e Francia. Antiche e consolidate mire che ora s'intrecciano con le più attuali di Turchia, Iran e Arabia Saudita. Interessi macchiati dal sangue dei siriani, vittime di una strage che si perpetua, attimo dopo attimo, a partire dal 2011, data d'inizio della guerra civile.
Trump è ambiguo, Macron più deciso, ma insieme, affiancati da Theresa May,
hanno sferrato l'attacco missilistico contro il suolo siriano. Al momento, limitato alla distruzione di centri per la ricerca e la produzione di armi chimiche. 




Così si dice.
Ma le ragioni politiche che alimentano l'astio verso Assad sono parecchie.
- A cominciare da quella palestinese, tornata d'urgente  attualità proprio in questi giorni.
- C'è poi il conflitto sciita-sunnita, che vede l'Arabia Saudita (da sempre accusata di finanziare il terrorismo)
ben decisa a dominare la zona e a ridurre a zero l'influenza dell'Iran per poi assumere il dominio completo del Golfo a scapito del Qatar.
- Subentra il sentore che anche la guerra nello Yemen sia un altro tassello della delicata partita a scacchi che si sta giocando in Medio Oriente. I ribelli che controllano la capitale San’a sono sciiti come l’Iran, storici alleati della Russia e del regime di Assad in Siria.
Tutto il resto del Medio Oriente, Isis compreso, è, al contrario, sunnita. Far cadere i ribelli Huthi nello Yemen vorrebbe dire per Stati Uniti e Arabia Saudita indebolire l’Iran, grande nemica di entrambi i paesi. In tale contesto le vittime designate sono i civili yemeniti, soprattutto i bambini, che muoiono a migliaia, sfiancati  dalla fame, dal colera e dalle bombe saudite.
Migliaia di bombe d’aereo, provenienti proprio dalla nostra bella Italia. Prodotte nello stabilimento RWM di Domusnovas, nel Sulcis della Sardegna, sono state vendute alle forze aeree saudite per essere scaricate sullo sfortunato, martoriato Yemen, in una guerra atroce, dimenticata da tutti.
- In questo gioco al massacro sulla pelle di inermi cittadini, entra in campo anche lo scontro tra Paesi come Russia e Stati Uniti, i quali, per suffragare il proprio status di poli mondiali, devono pur mostrare i muscoli.
- Nell'intreccio di interessi che mira a disintegrare Assad e a cambiare il Paese, si inserisce infine la Turchia, con la questione curda, perennemente irrisolta.
- Da non sottovalutare è la presenza dei Fratelli musulmani, che guidati da Erdogan e finanziati dal Qatar, hanno grande influenza in Europa, soprattutto in Gran Bretagna, dove il loro peso politico arriva ad influenzare anche le mosse del governo. Circola voce di uno scritto approfondito sui finanziamenti di islamici inglesi a favore dei gruppi jihadisti in Siria; documento  secretato, che nessuno è mai riuscito a vedere.
Secondo molti osservatori anche in Italia i Fratelli musulmani avrebbero radici profonde, con personaggi ufficialmente considerati musulmani moderati i quali, viceversa, agirebbero per conto del radicalismo islamico.
L'utilizzo di gruppi armati sostenuti e finanziati da potenze esterne occidentali è cosa risaputa e provata: è accaduto in Afghanistan con i russi, ed è noto il recente fenomeno dei foreign fighters. Figure che, di volta in volta e secondo i casi, vengono diversamente definite: terroristi, quando colpiscono in Occidente, ribelli moderati,  quando combattono in Siria.
Per i sostenitori di Assad si tratta semplicemente di uno strumento per attualizzare la politica di regime change, il cambio di regime in Siria, secondo gli interessi occidentali.
Il primo dei quali sarebbe proprio quello di spezzare l'asse  Putin- Assad.
Siria e Russia sono alleate da sempre.
Il territorio siriano, situato tra Libano e Iraq, rappresenta la parte finale della cosiddetta mezzaluna sciita, che s'insinua fino al Mediterraneo.
Proprio ciò che risulta sgradito all'Arabia e che, di conseguenza, non piace, nemmeno ai suoi alleati, Stati Uniti.


IL RUOLO DELL'EUROPA.
Quello dell'Europa, in questa fase di creazione e consolidamento di una ipotetica Unione, è un ruolo sospeso, pressoché inesistente. Fatta eccezione per le proverbiali sicurezze della Francia, il resto del Continente non sa che fare. Lo si è visto in Iraq, nel 2003;  nella drammatica vicenda libica e nel crescente processo di destabilizzazione dell'intera zona nordafricana, che altro non ha sortito se non il terrorismo ed un' incontrollata, dolorosa, drammatica immigrazione .
Molti sono i siriani convinti di trovarsi in mezzo ad una guerra fin dall'inizio utilizzata per un cambio di regime. Adesso che anche l'ultimo lembo di Goutha è stato liberato, ora che i ribelli si sono arresi e se ne sono andati, il caso dell'attacco chimico che senza alcuna prova viene attribuito al regime pare a molti solo un pretesto (o un tentativo) delle potenze occidentali per rovesciare Assad.
Evidentemente non ha insegnato nulla l'invenzione delle false prove sulle armi chimiche di Colin Powell per invadere l'Iraq.
Eppure un po' di prudenza sarebbe auspicabile, almeno da parte dell'Europa.
Gli Stati Uniti sanno di aver perso ormai in Siria una guerra che erano convinti di vincere in pochi mesi.
Le stesse lobby che hanno spinto l'incerto Trump ad un'azione cosiddetta dimostrativa dovrebbero ora  spiegargli che la Russia, ovviamente, risponderà.
Se Usa, Francia e Regno Unito vogliono portare a compimento il piano che gruppi armati ribelli hanno fallito, dovranno, per "salvare" i siriani, bombardare i siriani.
Paradossi della storia.

Eppure, proprio su tali presupposti, dettati ora da grandi, ora da piccoli o meschini interessi, poggiano le ragioni che, di volta in volta, spingono le Nazioni ad agire l'una contro l'altra, anche a costo di immani, atroci ingiustizie.
Ognuna in nome di una presunta visione lungimirante, che dovrebbe tutelarne nel tempo:  economia, profitti, crescita, confini, politica. Anche per questo il popolo avverso, spesso confinante, altre volte prossimo ad una vicinanza relativamente sconveniente,
deve essere imprigionato, affamato, scarnificato, massacrato. È così che si creano i profughi, quelli che poi nessuno vuole ospitare. 

D. Bart.

domenica 8 aprile 2018

Siria. Strage chimica a Duma: il pretesto per un attacco su vasta scala contro Assad.

All'ultima, ennesima strage di persone in Siria, fa seguito l'abituale e circostanziata efferatezza che annuncia, con deliberato cinismo, un nuovo pretesto di guerra: quel che si dice in gergo: il casus belli. 70 civili sono stati uccisi  per soffocamento causato da un agente chimico. Non è dato sapere con precisione quale, ma la sostanza in questione non dovrebbe essere un agente nervino bensi un gas “soffocante”, come ad esempio il fosgene. Un tipo di arma chimica mai usata prima d’ora in Siria. È questa, al momento, l'ipotesi formulata da alcuni esperti dopo aver visionato le immagini delle vittime.
Tra queste, come sempre, si contano anche numerosi bambini.
Quello che invece non si riesce a capire è chi sia realmente il responsabile dell'orrendo gesto. I ribelli accusano il Governo Siriano, il Governo Siriano respinge l' accusa e punta l'indice dritto contro i ribelli stessi.
Gli Stati Uniti, attribuiscono alla Federazione Russa una rilevante responsabilità ed un sia pur indiretto coinvolgimento nei gesti  perpetrati (eventualmente) dai gruppi fedeli al governo di Damasco. E la Russia che fa? Nega a sua volta ogni addebito, e parla di attacco “fabbricato”.
Sta di fatto che, indipendentemente da chi sia il responsabile della strage, ora gli Stati Uniti hanno a disposizione il pretesto, il casus belli, per attaccare la Siria.
Da settimane il numero uno del Pentagono, Jim Mattis, afferma che l’uso di armi chimiche in Siria determinerebbe una dura risposta americana. Lo stesso presidente Trump, che pure aveva annunciato il ritiro delle truppe Usa, aveva pubblicamente dichiarato la propria volontà di attaccare i vertici del regime siriano nel caso in cui fossero state utilizzate armi chimiche.
Non vorranno estraniarsi di certo dalla scena francesi e  britannici, sempre pronti ad agire di concerto con gli Stati Uniti quando si tratta di colpire assetti vitali del governo di Damasco.
E quindi, paradossalmente, assume persino relativa importanza la paternità di  questo attacco chimico. Ciò che conta, invece, sono le decisioni dei Governi Occidentali, ora, che finalmente hanno una motivazione per giustificare un attacco su vasta scala in Siria.
Americani, francesi e britannici devono aver già chiari anche i bersagli contro cui puntare i propri missili.
1)Le basi militari sospettate di essere l’origine degli attacchi chimici.
2)La sede del Governo Siriano e il suo presidente Al Assad
3)I sistemi di difesa aerea della Siria e le batterie operate dai russi.
Ad un' eventuale risposta militare dell'occidente potrebbe invece contrapporsi una più auspicabile risposta diplomatica o politica. A partire da oggi, gli occhi guardano a Washington, le speranze, tutte, sono riposte su John Bolton, nuovo Consigliere per la Sicurezza Nazionale alla Casa Bianca.

D.Bart.

venerdì 30 marzo 2018

Gaza, il fuoco dei cecchini uccide 15 palestinesi. 1.400 i feriti

La prima vita soffocata dai colpi d'artiglieria è stata quella di Omar Samour, un contadino di soli 27 anni. Il giovane si trovava all'interno della Striscia di Gaza, ma secondo i militari israeliani, gia troppo vicino alla barriera di sicurezza. E nel momento di alta tensione ogni passo è un pericolo, una minaccia all'invalicabilità del confine da difendere a tutti i costi. Perciò gli ufficiali di Tel Aviv hanno lanciato l'ordine di fare fuoco.
Poco più tardi la stessa sorte è toccata ad Amin Mahmoud Muammar, 35 anni, quindi ad un altro e ad un altro ancora fino a che il numero dei morti è arrivato a 14. Secondo i medici palestinesi, la vittima più giovane aveva 16 anni.

Nella Striscia di Gaza, dove la pace non può, non riesce a metter radici, Israele spara da ore sui manifestanti palestinesi. E oltre a quella dei morti è cominciata anche la conta dei feriti:1.000 - 1.200 - 1.400. Numeri che salgono di ora in ora.
L'esercito israeliano reprime con durezza e decisione la manifestazione commemorativa organizzata da Hamas durante la Yom al-Ard, la giornata della terra, che ricorda i morti palestinesi del 30 marzo 1976, quando le forze armate giunte da Tel Aviv soffocarono nel sangue la protesta dei coloni contro l'esproprio di terreni agricoli . La manifestazione dovrebbe proseguire fino al 15 maggio,  giorno del Nakba, la dichiarazione d'indipendenza israeliana del 1948. Stessa data che segna la diaspora forzata di migliaia di palestinesi.

Nei giorni scorsi il Governo di Tel Aviv aveva diramato l'avvertimento: "non esiteremo a dare ordine di sparare ai cecchini qualora i manifestanti dimostrassero  l'intenzione di superare le  recinzioni per fare il loro ingresso nei territori occupati da colonie israeliane".

Ed è ciò che sarebbe accaduto, almeno secondo le forze armate israeliane che stanno reprimendo senza pietà i tentativi di rivolta dei palestinesi. I quali, in ogni caso, restano imprigionati all'interno di un'area – la Striscia di Gaza – isolata dalle colonie da alti muri e reticolati di filo spinato.
Gli ufficiali israeliani replicano: "I palestinesi fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione".

LA FURIA DI HAMAS.

La reazione di Hamas non si è  fatta attendere.
"Non cederemo nemmeno un pezzo della terra di Palestina e non riconosceremo l’entità israeliana. Promettiamo a Trump e a tutti quelli che sostengono il suo complotto che non rinunceremo a Gerusalemme e che non c’è soluzione se non il diritto al ritorno”.
Il capo politico Hamas, Ismail Haniyeh, aggiunge:" date il
benvenuto ovunque al popolo palestinese che ha sconfitto la scommessa dei leader nemici secondo cui i vecchi sarebbero morti e i giovani avrebbero dimenticato. Ecco i giovani, i nonni e i nipoti. Non rinunceremo a Gerusalemme".

D.Bart.

sabato 17 marzo 2018

SIRIA. MIGLIAIA DI CIVILI IN FUGA DAI BOMBARDAMENTI. ESODO DA AFRIN E GHOUTA.


  

Colonne di civili, intere famiglie che portano con sé i vecchi, i malati e i lattanti da accudire. Fuggono in fretta e furia,con sacchi di fortuna e valige dove hanno stipato un po' di cibo e indispensabili vettovaglie. Sono decine di migliaia: in parte, lasciano la Ghouta orientale, in parte  Afrin, a nord della Siria.
16mila coloro che, secondo l'ONU, sono partiti da Ghouta, l’unica area vicina a Damasco ancora sotto il controllo dei ribelli siriani e che per questo, da settimane, patisce l'intenso attacco delle forze governative del presidente Bashar al Assad e dei suoi alleati.
50mila, invece, i civili che hanno lasciato Afrin, città del nord della Siria controllata dai curdi e obiettivo dell’ultima campagna militare turca, iniziata due mesi fa.
Qui la situazione si è  aggravata negli ultimi giorni, quando la Turchia ha annunciato di avere circondato la città, proprio mentre migliaia di persone erano ancora in fila per uscire dall’unica via di fuga rimasta aperta e nell'imminenza di un probabile bombardamento.
I curdi hanno lanciato un ultimo SOS venerdì, quando  l’unico ospedale operativo di Afrin è stato colpito dalle bombe sganciate dagli aerei turchi. Sotto questi  bombardamenti sono morte 43 persone, inclusi i bambini.
Ma la Turchia non arretra di un passo: vuole prendere Afrin e indebolire cosi  i curdi siriani, che il presidente  Recep Tayyp Erdogan sospetta essere molto vicini ai terroristi del PKK.
E se Afrin dovesse cadere nella mani di Ankara, migliaia di curdi attualmente in fuga non potrebbero più tornare  alle proprie case, alle proprie vite.
La strategia di Erdogan prevede infatti la creazione di “zona cuscinetto”, che vada oltre il confine meridionale turco con la Siria. Una lingua di terra individuata proprio in Afrin, attualmente controllata dai curdi.

A Ghouta orientale, invece, si teme un massacro. La situazione è gravissima, da settimane ormai.
L'offensiva militare del regime di Assad ha già ucciso 1.250 civili, su una popolazione stimata di 400mila persone. Gli attacchi sono continuati quasi incessantemente, nonostante la tregua di un mese approvata dall’ONU e tregue più limitate, di poche ore al giorno, promosse dalla Russia. Dall'Osservatorio siriano per i diritti umani, sappiamo che soltanto nella giornata di venerdì 46 civili, tra cui 6 bambini, sono morti sotto i bombardamenti  dell'esercito di Assad e dei suoi alleati.
Una guerra fratricida nella quale, per paradosso, è lo stesso governo siriano a portare "in salvo" i civili impauriti, attraverso i cosiddetti corridoi umanitari. Soltanto venerdì erano circa 4000 le persone in fuga. Mai così tante, in poche ore. 
D.Bart

domenica 11 marzo 2018

Bombe e massacri di civili. Continua, implacabile, l'offensiva dell' esercito turco su Afrin.

Ad Afrin, la situazione si fa di ora in ora più dura e drammatica. L' esercito turco, entrato da giorni in territorio siriano, continua a uccidere senza discrimine combattenti e civili. Le bombe hanno distrutto case, scuole, mercati e acquedotti. La città ha quasi terminato le riserve d'acqua dopo che i turchi, preso possesso della diga di Meidanki, hanno tagliato la fornitura e bombardato le stazioni di pompaggio. Viveri e medicinali non sono sufficienti a soddisfare le richieste dal momento che in città ha cercato rifugio anche la gente dei villaggi, già caduti sotto controllo dell'esercito turco e delle milizie jihadiste.
Il sentore di un imminente massacro aleggia su tutto il territorio di guerra, tanto che Asya Abdullah, del Movimento per una società democratica (Tev-Dem), ha invitato tutti i curdi alla sollevazione. La sirena d'allarme è  suonata in queste ultime ore, dopo che l’esercito turco e le formazioni  jihadiste
alleate si sono avvicinate a 2 chilometri dal centro di Afrin.
La città è stata presa d'assedio su diversi lati, in particolare dalla direzione di Shera: una distanza che pone  direttamente sotto minaccia il centro di Afrin. L' alta densità della popolazione, costituita dai residenti e dai tanti rifugiati, soffre la mancanza di acqua e non solo. Mancano anche generi di prima necessità, mentre  bombardamenti di artiglieria e di aerei continuano a colpire zone periferiche della città.
Il Tev Dem ha chiamato a una mobilitazione generale, a una sollevazione in tutti i posti e le piazze del mondo per difendere Afrin. Sotto accusa c'è il "progetto di pulizia etnica" che Erdogan e  jihadisti vorrebbero attuare sulla popolazione di Afrin.
Da più parti viene invocata la costituzione di una no fly zone che fermi i bombardamenti aerei, gli stessi che continuano ad alimentare il già  elevatissimo numero di vittime civili.  Azioni di protesta sono già in atto in molte città europee, ed anche in Bashur.
La gente di Afrin chiede alla comunità internazionale di rompere il silenzio, chiede di sostenere la popolazione, invoca una proposta di pace per la Siria.
È ora che abbia fine questo massacro, passato fino ad oggi sotto silenzio, o quasi.
D.Bart.

Un bambino spaventato nelle strade distrutte di Afrin

venerdì 2 marzo 2018

ZUCCHERO E TUMORI. UNO STUDIO RIVELA L'EFFETTO DISASTROSO CHE SVEGLIA LE CELLULE CANCEROGENE.


Un team di ricercatori europei ha scoperto una relazione disturbante tra il consumo di zucchero e l'iperattività delle cellule tumorali. Dopo nove anni di studi, gli scienziati belgi hanno dimostrato come l' effetto di Walburg , un fenomeno in cui le cellule tumorali abbattono gli zuccheri molto rapidamente, può stimolare lo sviluppo e la crescita dei tumori.

Secondo il rapporto, i tumori trasformano maggiori quantità di zucchero in lattato rispetto ai tessuti sani. Questo effetto è stato ampiamente studiato e persino utilizzato per l' individuazione di tumori cerebrali .

Lo studio , iniziato nel 2008 sotto la guida del professor Johan Thevelein, ha dimostrato come l'assorbimento iperattivo di zucchero da parte delle cellule tumorali porti ad un circolo vizioso di continua stimolazione dello sviluppo e della crescita del cancro, il che spiegherebbe la correlazione tra l'intensità dell'effetto Warburg e l'aggressività del tumore.

Per arrivare alla scoperta, gli esperti hanno analizzato le cosiddette "proteine ​​Ras", che si trovano comunemente nelle cellule tumorali e possono sviluppare forme mutate di cancro . Usando il lievito come riferimento, il team ha osservato il legame tra l'attività di Ras e il metabolismo dello zucchero, altamente attivo nel lievito.

Secondo il professore, la ricerca offre una base per studi futuri in questo ambito, che potrebbero guidare il cambiamento della dieta nelle persone che soffrono o sono inclini allo sviluppo di diversi tipi di tumori.


mercoledì 28 febbraio 2018

SIRIA: NEL MASSACRO DI GHOUTA MUOIONO ALTRI 400 CIVILI. 90 I BAMBINI.

I morti in Siria, sono oltre 340 mila dal 2011.

Pianti, urla di dolore che si confondono con il fragore delle bombe e dei mortai: il massacro del popolo siriano si consuma nel silenzio colpevole del mondo. Nel Ghouta orientale, ad est di Damasco, è una strage.  10 giorni di attacchi aerei hanno causato 400 morti - 90 dei quali bambini- e più di 870 feriti. A queste vittime, andranno ad aggiungersi quelle che non trovano posto negli ospedali, diventati bersaglio dei combattimenti insieme alle scuole.
In questo inferno in terra cade nel vuoto anche la richiesta di un immediato cessate il fuoco e la possibilità d'ingresso alla zona di personale medico.
Secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità, più di mille civili avrebbero  urgentissimo bisogno di aiuto medico perché feriti o gravemente malati.
Ultimo capitolo della guerra in Siria questo su Ghouta, che potrebbe rivelarsi il più feroce  in sette anni di combattimenti. E mentre
sale la tensione militare anche sul fronte turco,
le vittime risultano essere soprattutto civili, in particolare bambini.
In base alle stime ufficiali, più  di 400.000 civili sarebbero rimasti intrappolati nelle ultime 48 ore all'interno dell'enclave in mano all'opposizione. La Croce Rossa Internazionale ha ribadito che i corridoi della pausa umanitaria di cinque ore al giorno, dalle 9 alle 14,
annunciata da Mosca e dall'alleato siriano non possono essere usati dai civili senza un accordo tra le parti belligeranti e senza le necessarie garanzie di sicurezza.
L'ultimo convoglio umanitario che ha portato aiuti nella Ghouta si è mosso lo scorso novembre. Dunque, che altro dire! Poco importano, a questo punto, reciproche accuse ed eventuali responsabilità.
CHI SONO I RESPONSABILI DEL MASSACRO?
Sul governo di Damasco piovono nuove accuse. Secondo un rapporto pubblicato dal New York Times, che cita esperti Onu, la Corea del Nord ha spedito ai siriani forniture che potevano essere usate per la produzione di armi chimiche.
Tecnici nord coreani sono anche stati avvistati mentre lavoravano in impianti di armi chimiche e missili in Siria.
Anche ieri i bombardamenti aerei e di artiglieria governativi sono proseguiti sulla Ghouta. E secondo fonti mediche locali avrebbero causato almeno altri otto morti tra i civili, tra cui un bambino. Le aree più colpite sono Kfar Batna, Jisrin, Arbin, Harasta, Duma.
L'agenzia governativa siriana Sana ha invece accusato i "terroristi" della Ghouta di lanciare colpi di mortaio sul posto di blocco attraverso cui dovrebbero passare, secondo Mosca e Damasco, i civili in fuga dall'area assediata. La Russia afferma inoltre che durante la pausa umanitaria miliziani armati hanno continuato ad attaccare le posizioni delle forze governative vicino alle città di Hazram e Nashabiya, estendendo poi l'offensiva ad altre aree.
LA COOPERAZIONE CRIMINALE.
Nonostante l'orrore di un massacro senza fine e senza pietà, le potenze atlantiche, già responsabili di aver alimentato un conflitto fratricida e d'aver portato guerra e distruzione in Siria, non sembrano paghe. Prima uccidono, poi fanno della "cooperazione" un' orgia tra le macerie. 
Lo scandalo del sesso in cambio di cibo e altri aiuti fa prima capolino dal lungo silenzio quindi esplode in tutta la sua nefandezza. Al  terribile, esecrabile ricatto sono state sottoposte migliaia di donne siriane da parte di operatori di agenzie Onu e di ong. La denuncia viene confermata da una cooperante. In un'intervista alla BBC, proprio nella giornata mondiale delle organizzazioni no profit e nel bel mezzo dello scandalo che sta travolgendo diverse organizzazioni umanitarie in tutto il mondo, Danielle Spencer racconta nei particolari l'agghiacciante comportamento di alcuni suoi colleghi.


GLI INTERESSI E L'INDIFFERENZA DELLE GRANDI POTENZE.
L’Europa è disgregata e indifferente. Russia e Stati Uniti, Turchia e Iran, pensano a come  spartirsi le spoglie della Siria, l'Onu che riconferma la propria impotenza. Come già in Iraq, in Libia, nello Yemen.
Impotenza e inutilità tali, che  sarebbe persino giusto sciogliere l’Onu per rifondare una nuova società delle nazioni, con pari diritti e pari doveri per tutti i popoli.
Così, come attualmente concepita, l’Organizzazione delle Nazioni Unite non può rappresentare  l’interesse collettivo, non rappresenta tutti i popoli, ma solo gli interessi di alcuni. Già nell’atto della sua nascita, avvenuta a San Francisco nel giugno del 1945, c’è una norma che suona inammissibile nello statuto di qualsiasi organizzazione democratica : il diritto delle cinque nazioni vincitrici della guerra (Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia e Cina) a partecipare continuativamente al Consiglio di sicurezza. Sarà di conseguenza che
L' Onu si sia prestata spesso nel rendere politicamente corretti crimini viceversa orrendi. Ha approvato, per dirne uno, l’embargo assassino contro l’Iraq
richiesto con prove false dagli Usa. Anche l'inefficienza è colpa, se si pensa al milione di morti in Ruanda e ai massacri di Srebrenica.
D.Bart

venerdì 9 febbraio 2018

Caccia USA bombardano est della Siria. Scontri tra curdi, lealisti e opposizione.


Con raffiche di bombardamenti che da due giorni bersagliano l'est del Paese, i caccia statunitensi hanno ucciso decine di miliziani governativi. Avviene li, dove le forze curde, sostenute dalla coalizione occidentale, combattono contro le truppe filo-Assad appoggiate da Russia e Iran.
Così, nonostante l’Isis sia stato cacciato dalle sue roccaforti, la Siria continua ad essere martoriata da scontri tra le varie fazioni che si contendono le aree di influenza.
Il governo siriano parla di "mostruosa aggressione" ed ha chiesto l'intervento dell'ONU, accusando Washington di sostenere "il terrorismo" dello Stato islamico .
Anche per Mosca si è trattato di un "attacco deplorevole", mentre i vertici della coalizione affermano che gli attacchi aerei sono stati effettuati per difendere le forze curde dall'offensiva di miliziani lealisti a ridosso dell'Eufrate, dove da 3 anni agiva l’Isis.
Come spesso accade dall'inizio della guerra civile in Siria, le versioni sugli scontri nella regione si contraddicono e, soprattutto, non arrivano mai fonti indipendenti.
Quindi:
- i vertici USA raccontano che circa 500 uomini appartenenti ai gruppi ausiliari finanziati e addestrati anche dall'Iran, sono avanzati con carri armati protetti da fuoco di artiglieria oltre l'Eufrate, verso il pozzo petrolifero di Khusham controllato dalle forze curde.
- Il ministero degli esteri siriano afferma invece che i raid aerei hanno attaccato per primi le "forze tribali" che nell'area di Khusham "combattono contro l'Isis".
(in realtà, nella zona, i miliziani dello Stato islamico sono già stati dichiarati formalmente sconfitti)
Su un altro fronte, a Ghuta, ad est della capitale Damasco, i bombardamenti degli aerei governativi hanno ucciso 75 civili, tra i quali donne e bambini, in una zona densamente abitata, controllata dall’opposizione armata.
Dallo scorso 25 dicembre la zona è stretta nella morsa dolorosa di un’offensiva lanciata dall’esercito e dall’aviazione siriani, sostenuti dalla Russia, contro miliziani appoggiati dall’Arabia Saudita.
D.Bart.

giovedì 8 febbraio 2018

IRAN. LE DONNE CONTRO IL VELO. NO-CHADOR


La sommossa parte nel  2014, quando la giornalista Masih Alinejad, iraniana, residente a Brooklyn, apre su Facebook la pagina "My Stealthy Freedom" (La mia libertà clandestina).
Dalle pagine del social, le donne vengono invitate a postare immagini di sé  senza l’hijab, il velo, che nella tradizione islamica,  allacciato sotto la gola, copre il capo e le spalle.
Oltre tre anni di lotte, più o meno sommesse, per arrivare  al 27 dicembre scorso, quando la trentaduenne Vida Movahed viene fotografata in piedi, a capo scoperto, su una cabina elettrica di Teheran.
Al centro di una delle strade più frequentate della capitale, la ragazza sventola il suo chador legato ad un bastone. L'immagine, da subito virale, diventa un simbolo.
Arrestata e in tempi brevi rilasciata Vida Movahed è attualmente l'eroina di un rinnovato, indomito desiderio di libertà.
La protesta contro l'obbligo di hijab si estende in tutto l'Iran: decine di donne rinunciano al velo, sostenute, appoggiate in molti casi anche dagli uomini.
La decisione non è indolore,  almeno 29 donne nelle città di tutto il Paese vengono arrestate. Simili coraggiosi atti di ribellione contro il velo non hanno precedenti nella storia quasi quarantennale della Repubblica, eppure, soltanto l'anno scorso, la stessa Masih Alinejad ha lanciato i “Mercoledì bianchi” o “White Wednesdays,” invitando le donne a indossare hijab bianchi ogni mercoledì per protestare contro la legge che impone l’obbligo di hijab.
La pagina della giornalista ora ha più di un milione di follower. “Ero una reporter politica, ha detto, ma le donne in Iran mi hanno costretta a occuparmi della questione delle libertà personali”.
La lotta contro il velo obbligatorio è un punto di partenza, un pretesto quasi, per tornare ad avere controllo sul proprio corpo. In discussione, insomma, non c'è l’hijab in quanto tale.
Accanto a donne a capo scoperto, infatti, protestano  donne che indossano il chador integrale. Lo fanno con orgoglio, affinché sia chiaro che il movimento, in termini di concretezza , rivendica innanzitutto il diritto della donna di scegliere come vestirsi. Ciò che la maggior parte dei leader continua a voler negare.
Con una clamorosa eccezione: quella dello Shah Reza, fondatore della dinastia Pahlavi, che nel 1936, con un gesto d'avventata modernizzazione, abolì il velo imponendo addirittura gli arresti domiciliari per le disobbedienti, che non sopportavano di girare con il capo scoperto.
A ripristinare l'uso dell'’hijab fu il leader della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini, che lo rese  obbligatorio nel 1979.
Da allora i paladini del velo si avvalgono di un detto sentenzioso: “Ya rusari ya tusari,” che tradotto significa: “o il capo coperto o un pestaggio”.
Gruppi supervisori, spesso composti da donne con lo chador integrale, battevano le strade per punire le donne poco coperte.
L'editto di Khomeini, sopravvissuto alle proteste femminili di massa, non è mai stato revocato, ma le donne iraniane sono stanche e pronte ad abbattere anche i confini del “hijab accettabile”. Hanno accorciato gli abiti modellandoli sul corpo e ridotto le stoffe dei chador.
L'ira del regime si è scatenata di pari passo. Nel 2014, la polizia iraniana ha annunciato che il “cattivo hijab” aveva portato a numerosi arresti e causato 3,6 milioni di interventi da parte degli agenti.
Come ho detto, però, l'attivismo per i diritti delle donne attribuisce  all’hijab un importanza relativa rispetto ad altre priorità come l’eguaglianza dei diritti politici o la parità di genere. Nel 2006, la campagna "Un milione di firme per la revoca delle leggi discriminatorie” riservava scarsi riferimenti al velo. Anzi, le donne iraniane considerano ossessiva l'attenzione dell' occidente per l’hijab. “Non stiamo lottando contro un pezzo di stoffa, dice Alinejad, ma per la nostra dignità. Se non potete scegliere che cosa mettere in testa, allora non vi lasceranno decidere nemmeno che cosa pensare con la vostra testa".
Purtroppo, i funzionari della Repubblica Islamica sostengono che l’hijab conferisca dignità alle donne.
Le politiche discriminatorie sono tuttora in vigore e il movimento del milione di firme resta il grande sconfitto.
La fiamma del rinnovamento, rinvigorita dal gesto di Vida Movahed che sale sulla cabina elettrica per protestare contro il chador, ha comunque costretto il governo a prendere una posizione. Immediata, la prima risposta è arrivata per voce del capo della polizia iraniana: non più "carcerazione" bensì "educazione" per le donne che non osservano l'uso dell’hijab.
Quindi, nei primi giorni di gennaio, forse per placare i disordini in atto nel Paese, il Presidente Hassan Rouhani ha compiuto un importante passo dichiarando che “non si può imporre uno stile di vita alle future generazioni”.
In questi giorni, sotto la pressione di una aumentata disobbedienza civile, il procuratore generale dell’Iran ha commentato negativamente il comportamento delle donne definendo “infantili” i gesti ispirati al "no-hijab’”.
Ma, ormai sembra chiaro, le donne iraniane non sono più inclini a farsi intimorire.
Nuove generazioni, fortemente aiutate dall'ecosistema mediatico, diffondo potenti immagini di ribellione che ribaltano la situazione : non sono più le donne a temere il governo, è il governo che ha paura delle "no-hijab”,  dei loro capelli a vista, liberi, sotto il sole e nel vento.

D.Bart.

mercoledì 31 gennaio 2018

Siria - 100 morti. L'operazione "Ramo d'Ulivo e l'allarme di Macron: rischio 'invasione' turca.


"Ramo d'Ulivo": è stata chiamata così l'operazione che il 20 gennaio scorso l’esercito turco ha lanciato sulla regione di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Un nome che nella simbologia universale della pace suona come una beffa. 

Un centinaio i morti, ma Ankara smentisce

L’aviazione ha aperto l'offensiva con numerosi bombardamenti sulla zona seguiti, il giorno dopo, dall'imponente invasione di terra eseguita da truppe di fanteria e corazzate turche. L'accerchiamento si è esteso fino al confine orientale, da dove si sarebbero mossi  migliaia di combattenti appartenenti all’opposizione siriana filo-turca dell’Esercito Libero. Gli stessi che da mesi occupano la striscia di terra intorno alle cittadine di Azaz, Al-Bab e Jarablus, conquistate con l’aiuto di Ankara nell’ambito dell’operazione Euphrates Shield.

Il mirino degli attacchi era puntato contro obiettivi del Ypg, il più importante componente delle Syrian Democratic Forces (Sdf), la milizia fortemente voluta ed appoggiata dagli USA nel nord-est della Siria per cacciare dalla zona lo Stato Islamico. Ultima vittoria della formazione, nel 2017, la riconquista di Raqqa, ex capitale del Califfato.

Da mesi, ormai, da Ankara trapelava l'intenzione di sottrare Afrin al controllo del Ypg. Anche a costo di un' operazione militare. Strappare ai curdi del Pyd il cantone di Afrin significa infatti porre fine ad ogni loro velleità di controllo sull’intero confine turco-siriano, con sbocco sul Mediterraneo.

All'operazione, pianificata da tempo, mancava solo il via libera di Putin. Che è, evidentemente, arrivato facendo dell'offensiva Turca un punto di svolta della guerra in Siria.

Da oltre un anno, infatti, poco dopo l’inizio del suo intervento in Siria, anche Mosca si era fatta garante dei territori sotto il controllo del Pyd, in virtù del contributo che quest’ultimo aveva dato alla lotta contro lo Stato Islamico. L’accordo, tutt'altro che tacito, era che gli Stati Uniti si fossero impegnati a garantire le conquiste curde a est dell’Eufrate, armando e assistendo le Sdf nell’offensiva su Raqqa, mentre la parte occidentale sarebbe rimasta sotto tutela della Russia, la quale, per garantire la presenza curda ad Afrin, aveva anche provveduto a mandare nella città un contingente di osservatori militari.
L' attacco turco pone fine a questa tutela. Anche se l'ufficialità rimane ibrida e torbida, al punto che sia la Russia che Assad condannano duramente l’operazione unilaterale turca.
Dichiarazioni che contraddicono le intenzioni, se è vera la notizia del ritiro degli osservatori militari da Afrin, avvenuto poche ore prima dell’attacco.
Autorevoli e sicure fonti, poi, confermano anche l'incontro di giovedì 18 gennaio a Mosca tra vertici militari turchi e russi per coordinare le operazioni.
Il comportamento di Mosca rimanda la mente alla stessa falsa retorica usata da Ankara per condannare l’attacco del regime di Damasco, sostenuto dall’aeronautica russa, sull’enclave ribelle di Idlib. Ankara è arrivata prrsino a convocare gli ambasciatori russo e iraniano e a minacciare contrattacchi, benché l’operazione fosse più o meno prevista nelle trattative di Astana, tenute tra Russia, Iran e Turchia nel settembre scorso.
Le dichiarazioni diplomatiche rese in queste ore tendono a difendere sia l’immagine della Turchia, paladina dei ribelli siriani, sia l’immagine della Russia, a sua volta garante dei curdi del Rojava.
Un' immagine idilliaca  ulteriormente danneggiata dalle dichiarazioni del rappresentante del governo del Rojava il quale ha confermato che i rappresentanti russi si sono offerti di fermare l’attacco turco solo in cambio della rinuncia curda ad Afrin in favore del regime di Damasco.

L'operazione "Ramo d'Ulivo", dunque, confonde acque già fin troppo torbide. Scompone le carte, aprendo la visuale su due diversi sviluppi, il primo dei quali presenta altrettante  prospettive.

-La prima è che potrebbe favorire la ripresa della conferenza di pace di Sochi, attualmente bloccata, e sulla quale la diplomazia russa ha messo il massimo impegno per risolvere l'intricata vicenda siriana.
Per raggiungere l'ambizioso obbiettivo, Mosca dovrebbe far digerire ad Ankara la presenza dei curdi del Pyd al tavolo della conferenza.
E il consenso all'attacco ad Afrin potrebbe rappresentare il termine dello scambio.

 
- La seconda è che la Russia abbia deciso di abbandonare irrevocabilmente i curdi,  cominciando dal nord-ovest, contando sul fatto che gli Stati Uniti faranno lo stesso a nord-est, evitando così di rimanere gli unici alleati dei curdi in un contesto regionale assolutamente ostile.

Sta di fatto che l’unico punto su cui le dichiarazioni ufficiali di Russia e Turkia concordano sono quelle riguardanti la responsabilità  degli USA nel generare la causa che ha portato la Turchia ad agire. Vale a dire, la creazione di un contingente di protezione dei confini nelle aree curde nel nord-est, forza addestrata da Washington

Il secondo sviluppo riguarda invece gli oppositori siriani. L’operazione su Afrin, condotta con il supporto dei ribelli dell’Esercito Libero controllati da Ankara, allarga infatti significativamente i territori già sotto controllo dei ribelli filo-turchi occupati nel quadro dell’operazione Euphrates Shield. Ciò avviene nelle stesse settimane in cui le massicce operazioni del regime siriano su Idlib (sostenute da forze iraniane e russe) rischiano di portare a un nuovo esodo di massa di civili e combattenti legati agli oppositori di Assad, com’era accaduto un anno fa dopo la presa di Aleppo. In questo modo le forze turche, che sono già disposte lungo il confine tra la provincia di Idlib e quella di Afrin, potrebbero facilitare il passaggio di civili e ribelli “moderati” verso Afrin e le zone di Euphrates Shield, intrappolando i jihadisti di Tahirir al-Sham (ex al-Nusra) ad Idlib, sotto l’attacco del regime.

L'eventuale successo di tale operazione modificherebbe la situazione attuale e finale della guerra, almeno nel nord-ovest della Siria. Eliminerebbe, innanzitutto, l’invadente presenza di Tahrir al-Sham, confinando la presenza curda a ovest dell’Eufrate. L’intera opposizione siriana passerebbe sotto il diretto controllo della Turchia, che ne sacrificherebbe l’autonomia di scelta in favore degli interessi di Ankara.
Assad, in cambio, otterrebbe di ridimensionare la campagna militare per riprendere Idlib, con la possibilita di poter negoziare i futuri accordi di pace direttamente con una controparte più accomodante e affidabile come la Turchia. Nel frattempo potrebbe occuparsi delle restanti sacche di resistenza a Damasco, nel sobborgo di Ghouta e nel sud.

Ipotesi che, verosimilmente, potrebbero rientrare nel quadro strategico concordato dai principali attori in gioco sullo scacchiere del nord-ovest siriano.
L'unica certezza, invece, è  che, nonostante gli accordi di Astana su Idlib e la protezione russa su Afrin, le bombe cadono ancora su entrambe le città, causando nuovi morti, altro dolore.
Al momento sarebbero oltre un centinaio le vittime dei bombardamenti turchi, ma Ankara smentisce.
Un orrore che si rinnova senza adeguato contrattacco, se non quello  rappresentato da furibondi quanto inutili messaggi diplomatici.

Il presidente francese, Emmanuel Macron, ammonisce la Turchia sui rischi di un' "invasione" del nord della Siria.
"Ho chiesto subito calma e cautela e ho fatto presente già dalle prime ore la nostra preoccupazione. Se non venisse rispettata la sovranità siriana ci troveremmo di fronte a un reale problema", ha detto il presidente intervistato dal Figaro. 

Secondo Macron le manovre di Ankara nel nord-ovest della Siria richiedono "discussioni e decisioni sia tra europei, ma più in generale tra alleati. Per questo - annuncia il presidente -  nei prossimi giorni parlerò  con Erdogan di questa offensiva contro l'enclave curdo-siriana di Afrin".
Per Macron "non è possibile costruire una sicurezza sul terreno senza il rispetto della sovranità siriana contro un nemico (i curdi) che non è più l'Isis".

Macron ha parlato al termine della cena con la comunità armena a Parigi. Qualche ora prima, davanti ai deputati riuniti all'Assemblea Nazionale, anche il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, aveva parlato della difficile situazione del nord della Siria, denunciato il rischio di un' "occupazione" da parte della Turkia.

D.Bart.

sabato 27 gennaio 2018

Attentato a Kabul, 95 morti. L' attacco suicida vicino al ministero dell'Interno.

Kabul. 27 gennaio 2018.

Un massacro. Non ci sono parole, altrimenti, per raccontare le conseguenze della triplice esplosione che ha fatto tremare stamattina il centro di Kabul. L'attacco suicida, rivendicato dai talebani con un messaggio whatsapp, ha provocato 95 morti e 163 feriti. Bilancio provvisorio.
Le esplosioni sono avvenute nei pressi di sedi strategiche, importanti come il ministero dell'Interno, gli uffici dell'Unione europea e dell'Alto consiglio per la pace. Anche la sede della polizia di Kabul si trova nelle immediate vicinanze. Per il trasporto dell'ingente quantitativo di esplosivo, i talebani hanno utilizzato un'autoambulanza. L'autobomba è saltata in aria dopo aver superato il primo check-point.

A rendere conto del  numero delle vittime è stato il portavoce del ministero dell'Interno, Waheed Majroh. Questo è solo l'ultimo  dei numerosi attentati contro Kabul, e forse quello con il maggior numero di vittime.
Il kamikaze che ha utilizzato un'ambulanza per passare i posti di blocco, al primo controllo ha detto che stava portando un paziente verso l'ospedale Jamuriat. Al secondo alt  è stato identificato e ha fatto esplodere la carica.

Tutto si è svolto davanti ad una delle barriere che proteggono l'accesso alla strada che porta alle sedi di diverse istituzioni: uffici del ministero dell'Interno, sede della polizia, delegazione dell'Unione europea, e il liceo per ragazze Malalai.

La maggior parte dei feriti, tra i quali alcuni bambini, è stata trasportata nell'ospedale dell'ong Emergency, vicino alla zona dell'attentato. "È un massacro", ha detto Dejan Panic, coordinatore di Emergency in Afghanistan.

La foto che accompagna il suo messaggio mostra numerose vittime distese nei corridoi, sotto le mura della struttura. Intorno, panico e pericolo. Un edificio vicino all'ospedale Jamuriat, alto diversi piani e con numerose crepe, minacciava di crollare, così i medici hanno chiesto ai civili di aiutare a spostare i feriti, che avrebbero rischiato di rimanere sepolti sotto le macerie in caso di crollo.

L'obiettivo privilegiato sarebbe l'Alto consiglio per la pace, che è incaricato dei negoziati con i talebani, al momento bloccati. L'attacco, rivendicato dal portavoce dei talebani dice testualmente: "Un martire ha fatto saltare in aria la sua autobomba vicino al ministero dell'Interno, dove si trovavano numerose forze di polizia".

L'esplosione, fortissima, ha letteralmente scosso la capitale. Le finestre dell'ufficio di Afp, che si trova a circa 2 chilometri di distanza, hanno tremato. A "Chicken Street",  la vicina strada degli antiquari, le vetrine si sono infrante come in tutti i quartieri a diverse centinaia di metri dal luogo dell'attentato. Un fotografo di Afp che si è recato  immediatamente sul posto ha visto diversi corpi insanguinati, "morti e feriti" sui marciapiedi. I residenti aiutavano nei soccorrere. Numerose vittime - uomini donne e bambini - portate nell'ospedale Jamuriat sono state curate nei corridoi sommersi di pazie.
Il livello d'allerta a Kabul è altissimo, in particolare nel centro e nel quartiere diplomatico, dove si trova la maggior parte di ambasciate e istituzioni straniere.
Si tratta del terzo attentato in Afghanistan in una settimana: dopo quello di sabato 20 gennaio all'hotel Intercontinental di Kabul, rivendicato dai talebani, e dopo quello di mercoledì 24 gennaio nella sede di Save the Children a Jalalabad, rivendicato dall'ISIS.

D.BART.

mercoledì 24 gennaio 2018

L' ATTACCO DELL' ISIS A 'SAVE THE CHILDREN' IN AFGHANISTAN.


Il blitz cruento, brutale che l'Isis ha inscenato oggi contro gli uffici della ong internazionale 'Save the Children' a Jalalabad City, nella provincia orientale afghana di Nangarhar, conferma lo stile barbarico, tipico di un terrorismo che agisce alla cieca, colpendo persino quelle strutture che in guerra si proteggono con la croce. L'attacco ha impegnato le forze di sicurezza afghane per ben dieci ore. Al termine di sparatorie ed esplosioni, che si sono susseguite per l'intera  giornata, le autorità hanno diffuso un provvisorio bilancio di 11 morti e 24 feriti. Tra le vittime vi sarebbero tre- forse quattro- membri di Save the Children.

L'assalto è scattato intorno alle 9 ora locale, con una forte deflagrazione davanti all'edificio che ospita l'organizzazione. Non è chiaro se provocata da un kamikaze che si è fatto esplodere o da un'autobomba. Quindi l'irruzione di quattro uomini che hanno preso posizione bloccando sotto la minaccia delle armi automatiche l'intero staff, una cinquantina di persone.

Come nell'attacco all'Hotel Intercontinental di Kabul, rivendicato dai talebani durante il fine settimana, poco dopo l'assalto una colonna di fumo nero si è levata nel cielo, provocata da un incendio ai piani alti del palazzo e che i vigili del fuoco hanno potuto spegnere solo al termine dello scontro.

Per le forze speciali e i reparti di teste di cuoio afghani, come sempre, il difficile compito di fronteggiare i terroristi cercando di non danneggiare le decine di persone tenute in ostaggio. Durante le lunghe ore di combattimento da tutto il mondo sono giunte condanne per il "crimine contro l'umanità" rappresentato da un attacco ad un'istituzione, come Save the Children, che ha come compito principale il sostegno dei bambini più poveri nelle zone di conflitto o in via di sviluppo. Di "grave violazione del diritto umanitario internazionale" hanno parlato ad esempio in una nota congiunta l'Alto Commissario per la Politica estera della Ue, Federica Mogherini, ed i commissari per le crisi umanitarie e allo Sviluppo, Christos Stylianides e Neven Mimica.

PERCHÉ L’ ESCALATION DI VIOLENZA?

L' obiettivo dei terroristi è quello mostrare un Afghanistan in subbuglio, perennemente sotto attacco,  diffondere la percezione di un Paese in crisi, far apparire debole il governo di Kabul.

Un compito tutt'altro che difficile per l' ISIS e i Talebani, considerata l'incosistenza del governo del Presidente Ghani, demolito da corruzione e rivalità all'interno dello stesso all’apparato.

Un governo inefficace, che non riesce a soddisfare nemmeno i bisogni minimi della popolazione
Per molti osservatori sarebbe fondamentale mantenere la presenza occidentale nel Paese. Almeno fino a quando non si troverà una governance locale decente.
Di parere contrario, ovviamente, sono i movimenti islamisti: Daesh, Al Qaeda e Talebani mirano a mentenere il Paese nel caos. È questa l'unica opportunità che hanno di aumentare il proprio potere e la propria influenza in Afghanistan.
Con altri Paesi occidentali anche l’Italia è impegnata nel sostegno al governo di Kabul, fornisce strumenti per garantire sicurezza alla popolazione, esercitando un importantissimo ruolo nell'addestramento e nella consulenza.

Far risalire l’escalation di attacchi degli ultimi mesi alla nuova strategia dell’amministrazione Trump per l’Afghanistan forse non è del tutto giusto.
La violenza in atto potrebbe avere natura puramente fisiologica.
In genere ci vogliono 20-30 anni prima che qualunque peace support operation possa mostrare i suoi effetti.  Il percorso di assestamento in Afghanistan sarà lento e chiederà pazienza.
Miglioramenti in ambito di sicurezza non sono possibili in tempi brevi, né un'ulteriore aumento di truppe cambierebbe la situazione. I popoli non guidano con fucili e carri armati, si gestiscono con buoni governi.

D.Bart.

domenica 21 gennaio 2018

TRA DEVASTAZIONE E ROVINE LA SIRIA RILANCIA IL TURISMO.

Città storiche e splendenti come Aleppo e Palmira sono parzialmente ridotte in pezzi, e così del gran parte del paese.
In tutta la Siria, gli edifici sono in rovina. Milioni di persone sono fuggite dalle proprie case. I siti storici sono stati distrutti, sia dai bombardamenti militari sia dalle mosse barbariche dello Stato islamico. E la guerra civile è ancora in corso.
Nonostante tutto i funzionari del ministero del turismo hanno partecipato sabato scorso alla fiera internazionale del turismo di Fitur a Madrid, nella speranza di attirare visitatori nel paese.
Un messaggio rivolto allo straniero un po' speciale, capace di vedere oltre la distruzione.
Ora che governo ha riconquistato in parte il controllo del territorio finito nelle mani dei ribelli,
il paese vive finalmente un minimo di stabilità, ma il rilancio del turismo sembra al momento un pericolosissimo azzardo. Ignorare quanto sia verosimile la ricaduta nella guerra che ha raso al suolo gran parte del paese è un errore paradossale.

Prima del conflitto, iniziato nel 2011, la Siria era un paese   tra i più interessanti dal punto di vista  turistico: dalla cittadella di Aleppo alle rovine dell'era romana di Palmyra il settore dei viaggi rappresentava una parte importante della sua economia. La guerra, peraltro ancora in corso, ha gravemente danneggiato se non interamente distrutto questi tesori di inestimale importanza e bellezza. L'insicurezza diffusa durante tutto il conflitto ha indotto la maggior parte dei governi a sconsigliare ai propri cittadini i viaggi in Siria.
Ma Bassam Barsik, direttore del marketing presso il Ministero del turismo siriano, ha rilasciato all'agenzia di stampa Agence France-Presse di Madrid una dichiarazione inequivocabile :
"Quest'anno è il momento di ricostruire la Siria e la nostra economia".
Barsik ha detto che l'anno scorso 1,3 milioni di stranieri hanno viaggiato in Siria. Sorvolando però sul fatto che tale cifra include anche viaggiatori giunti dal vicino Libano solo per un giorno.
Nel 2018, i funzionari siriani contano  comunque  di portare il numero di visitatori a due milioni.

Il governo siriano aveva già tentato un'operazione simile, seguita da aspre critiche. Accadde nel 2016 quando, attraverso il canale ufficiale di YouTube, aveva pubblicato un video con lo slogan "Siria sempre bella", promuovendo così il turismo nel paese. Il filmato mostrava ampie vedute della costa  e nuotatori che si tuffavano in mare. Si trattava in realtà di persone costrette dagli uomini del regime al ruolo di bagnanti.
Nel frattempo i militari combattevano per la riconquista di Aleppo, e l'intero Paese, prostrato dal dolore, versava sangue.

D.Bart.