giovedì 8 febbraio 2018

IRAN. LE DONNE CONTRO IL VELO. NO-CHADOR


La sommossa parte nel  2014, quando la giornalista Masih Alinejad, iraniana, residente a Brooklyn, apre su Facebook la pagina "My Stealthy Freedom" (La mia libertà clandestina).
Dalle pagine del social, le donne vengono invitate a postare immagini di sé  senza l’hijab, il velo, che nella tradizione islamica,  allacciato sotto la gola, copre il capo e le spalle.
Oltre tre anni di lotte, più o meno sommesse, per arrivare  al 27 dicembre scorso, quando la trentaduenne Vida Movahed viene fotografata in piedi, a capo scoperto, su una cabina elettrica di Teheran.
Al centro di una delle strade più frequentate della capitale, la ragazza sventola il suo chador legato ad un bastone. L'immagine, da subito virale, diventa un simbolo.
Arrestata e in tempi brevi rilasciata Vida Movahed è attualmente l'eroina di un rinnovato, indomito desiderio di libertà.
La protesta contro l'obbligo di hijab si estende in tutto l'Iran: decine di donne rinunciano al velo, sostenute, appoggiate in molti casi anche dagli uomini.
La decisione non è indolore,  almeno 29 donne nelle città di tutto il Paese vengono arrestate. Simili coraggiosi atti di ribellione contro il velo non hanno precedenti nella storia quasi quarantennale della Repubblica, eppure, soltanto l'anno scorso, la stessa Masih Alinejad ha lanciato i “Mercoledì bianchi” o “White Wednesdays,” invitando le donne a indossare hijab bianchi ogni mercoledì per protestare contro la legge che impone l’obbligo di hijab.
La pagina della giornalista ora ha più di un milione di follower. “Ero una reporter politica, ha detto, ma le donne in Iran mi hanno costretta a occuparmi della questione delle libertà personali”.
La lotta contro il velo obbligatorio è un punto di partenza, un pretesto quasi, per tornare ad avere controllo sul proprio corpo. In discussione, insomma, non c'è l’hijab in quanto tale.
Accanto a donne a capo scoperto, infatti, protestano  donne che indossano il chador integrale. Lo fanno con orgoglio, affinché sia chiaro che il movimento, in termini di concretezza , rivendica innanzitutto il diritto della donna di scegliere come vestirsi. Ciò che la maggior parte dei leader continua a voler negare.
Con una clamorosa eccezione: quella dello Shah Reza, fondatore della dinastia Pahlavi, che nel 1936, con un gesto d'avventata modernizzazione, abolì il velo imponendo addirittura gli arresti domiciliari per le disobbedienti, che non sopportavano di girare con il capo scoperto.
A ripristinare l'uso dell'’hijab fu il leader della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini, che lo rese  obbligatorio nel 1979.
Da allora i paladini del velo si avvalgono di un detto sentenzioso: “Ya rusari ya tusari,” che tradotto significa: “o il capo coperto o un pestaggio”.
Gruppi supervisori, spesso composti da donne con lo chador integrale, battevano le strade per punire le donne poco coperte.
L'editto di Khomeini, sopravvissuto alle proteste femminili di massa, non è mai stato revocato, ma le donne iraniane sono stanche e pronte ad abbattere anche i confini del “hijab accettabile”. Hanno accorciato gli abiti modellandoli sul corpo e ridotto le stoffe dei chador.
L'ira del regime si è scatenata di pari passo. Nel 2014, la polizia iraniana ha annunciato che il “cattivo hijab” aveva portato a numerosi arresti e causato 3,6 milioni di interventi da parte degli agenti.
Come ho detto, però, l'attivismo per i diritti delle donne attribuisce  all’hijab un importanza relativa rispetto ad altre priorità come l’eguaglianza dei diritti politici o la parità di genere. Nel 2006, la campagna "Un milione di firme per la revoca delle leggi discriminatorie” riservava scarsi riferimenti al velo. Anzi, le donne iraniane considerano ossessiva l'attenzione dell' occidente per l’hijab. “Non stiamo lottando contro un pezzo di stoffa, dice Alinejad, ma per la nostra dignità. Se non potete scegliere che cosa mettere in testa, allora non vi lasceranno decidere nemmeno che cosa pensare con la vostra testa".
Purtroppo, i funzionari della Repubblica Islamica sostengono che l’hijab conferisca dignità alle donne.
Le politiche discriminatorie sono tuttora in vigore e il movimento del milione di firme resta il grande sconfitto.
La fiamma del rinnovamento, rinvigorita dal gesto di Vida Movahed che sale sulla cabina elettrica per protestare contro il chador, ha comunque costretto il governo a prendere una posizione. Immediata, la prima risposta è arrivata per voce del capo della polizia iraniana: non più "carcerazione" bensì "educazione" per le donne che non osservano l'uso dell’hijab.
Quindi, nei primi giorni di gennaio, forse per placare i disordini in atto nel Paese, il Presidente Hassan Rouhani ha compiuto un importante passo dichiarando che “non si può imporre uno stile di vita alle future generazioni”.
In questi giorni, sotto la pressione di una aumentata disobbedienza civile, il procuratore generale dell’Iran ha commentato negativamente il comportamento delle donne definendo “infantili” i gesti ispirati al "no-hijab’”.
Ma, ormai sembra chiaro, le donne iraniane non sono più inclini a farsi intimorire.
Nuove generazioni, fortemente aiutate dall'ecosistema mediatico, diffondo potenti immagini di ribellione che ribaltano la situazione : non sono più le donne a temere il governo, è il governo che ha paura delle "no-hijab”,  dei loro capelli a vista, liberi, sotto il sole e nel vento.

D.Bart.

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