mercoledì 27 dicembre 2017

Truppe cinesi in Siria


Nell'interminabile, doloroso e caotico conflitto siriano s'inserisce un nuovo inquietante elemento:  l'arrivo al porto di Tartus della prima unità delle forze speciali dell'esercito cinese.
Secondo le ultime notizie, Pechino avrebbe pianificato l'invio di due unità: le "Tigri della Siberia" e le "Tigri notturne", per assistere il regime di Assad contro gli uiguri cinesi che combattono a fianco delle organizzazioni musulmane radicali in Siria. Al momento, tuttavia, è stato confermato soltanto l'arrivo della seconda unità, le "Tigri Notturne".
Secondo l'ambasciatore siriano in Cina, circa cinquemila uiguri etnici della provincia cinese dello Xinjiang si trovano attualmente in Siria. E lo stesso presidente Assad ha già avuto modo di definire
"cooperazione cruciale" quella tra la Siria e l'intelligence cinese contro i militanti uighur. Peraltro, da quando l'ammiraglio cinese Guan Yufi ha visitato la Siria, a metà 2016, l'esercito cinese è presente in Siria per addestrare le forze siriane all'uso di armi fabbricate in Cina, per raccolta di informazioni, per logistica e medicina sul campo.
Dall'inizio della guerra civile in Siria e in Iraq, gli uiguri si sono radunati in Medio Oriente per unirsi alle forze ribelli che combattono contro il regime di Assad e il regime sciita in Iraq, sostenuto dall'Iran. Gli Uiguri hanno affiancato nel tempo  diverse milizie jihadiste, come il Fronte di Jabhat al Nusra, Hayaat Tahrir el Sham e ISIS (Stato Islamico).
ll governo cinese ha affermato che "più di mille" separatisti Sinkiang hanno ricevuto addestramento terroristico in Afghanistan e sostiene di aver arrestato cento terroristi addestrati all'estero, appena tornati a Sinkiang.
Temendo le correnti irrendentistas causate dai separatisti uiguri e per affrontare la crescente violenza nella provincia di Xinjiang, il governo centrale cinese segue da tempo una politica di neutralizzazione delle tendenze separatiste in quella regione, ma non è riuscito a contenere la minaccia  uigura. Anzi.
Le misure contro gli uiguri sono diventate un boomerang, provocando un maggior numero di attacchi terroristici nelle province e fuori dalla Cina dalla fine del 2016. Inoltre, le restrizioni religiose cinesi contro i musulmani nel Sinkiang potrebbero aver spinto oltre un centinaio di uiguri ad aderire all'ISIS. Gli attacchi perpetrati dagli uiguri seguono quasi gli stessi schemi di quelli attuati dai radicali islamici (ISIS e altri) in altre parti del mondo, come la corsa su veicoli contro i pedoni, i kamikaze e gli assalitori muniti di coltello. Ma, a differenza di altri paesi nel mondo, gli attacchi non vengono pubblicizzati dal governo cinese, che mantiene un controllo rigoroso delle informazioni. Come ha detto un corrispondente di Reuters: "Il governo ha ritardato la segnalazione di precedenti incidenti nel Sinkiang, e i limiti ai giornalisti stranieri che lavorano lì rendono quasi impossibile arrivare a una valutazione indipendente della sicurezza della regione".
La sconfitta dell'ISIS in Iraq e i recenti successi delle truppe di Assad in Siria contro i ribelli sembrano aver creato uno spiraglio risolutivo in cui Pechino sta cercando di inserirsi prima che centinaia di combattenti uiguri tornino a casa dopo aver combattuto nelle file del ribelli, completamente addestrati per la guerriglia. La loro esperienza può avere un grande impatto sul modo in cui i separatisti uiguri stanno attualmente combattendo la loro guerra. Oltre alle ultime minacce Uighur di "spargere fiumi di sangue", si può anticipare che il problema Uighur è cresciuto fino a raggiungere una dimensione mai sperimentata in passato.
Tali circostanze eccezionali potrebbero aver spinto Pechino a schierare le sue truppe d'élite in Siria per contenere il possibile flusso di combattenti uiguro in Cina. In parallelo e come contropartita, Pechino ha offerto al regime siriano l'investimento di miliardi di dollari e il proprio impegno nello sforzo di ricostruzione della Siria.

D.Bart.

Fonte: Jerusalem Center for Public Affairs

giovedì 14 dicembre 2017

Siria. Attacchi aerei contro Al-Qaeda ad Aleppo.

20 terroristi di Al-Qaeda sono stati uccisi in diversi attacchi missilistici lanciati dall'esercito siriano nella città di Tal Ahmar, nella provincia di Aleppo (nord).
Gli attentati aerei si sono concentrati sulla distruzione delle posizioni del cosiddetto Liberation Board of the Levant (Hayat Tahrir Al-Sham, in arabo), un gruppo legato ad Al-Qaeda.
Il portale locale  Al-Masdar News  riferisce che le forze siriane, nella loro avanzata antiterroristica ad Aleppo , hanno lanciato diversi round di missili su Tal Ahmar, che si trova nel sud-est di quella provincia.
Durante gli attacchi aerei contro i nascondigli dei terroristi, diversi mezzi pesanti della banda sono stati distrutti. Nei giorni scorsi, le truppe siriane sono riuscite a liberare cinque città nelle vicinanze di Aleppo, zone che da tempo erano sotto il controllo dei fanatici.
Con questo risultato, ultimo di una serie ottenuta con l'aiuto degli alleati, le forze siriane hanno preso il controllo delle rotte di rifornimento degli estremisti che occupavano la zona. Inoltre, ogni  movimento terrorista presente nelle pianure del campo di Aleppo, e da oggi un più facile bersaglio.
Il 10 dicembre scorso,  l'esercito siriano è riuscito ad espellere altri terroristi, legati ad Al-Qaeda, da sette villaggi nel nord della provincia centrale di Hama, che si trova a sud di Aleppo.
L' offensiva del governo di Damasco, intensificata nel nord-ovest del Paese, dovrebbe porre fine alla presenza del Daesh in Siria.
PERCHÉ "DAESH"
Il nome del gruppo è stato indicato, a seconda dei casi, con le sigle Isis, Isil, Is e anche Sic. Perché questa confusione?
Uno dei motivi è che il gruppo si è evoluto nel corso del tempo, cambiando il suo stesso nome. All’inizio era una piccola ma brutalmente efficace fazione della resistenza sunnita all’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003 che si faceva chiamare Al Qaeda in Iraq, o Aqi. Nel 2007, in seguito alla morte del suo fondatore (e alle accuse di essere troppo sanguinario, che gli sono state rivolte da Al Qaeda), Aqi ha cambiato nome in Stato islamico in Iraq, o Isi. In seguito ha subìto alcune battute d’arresto sul suo territorio ma, osservando la Siria sprofondare nella guerra civile nel 2011, ha intravisto un’opportunità.
Nel 2013 si era installato nella parte orientale della Siria, assumendo il nuovo e più aderente nome di Stato islamico in Iraq e Siria (Isis). Rendendo le cose ancora più complicate, l’Isis ha cambiato nuovamente nome nel giugno 2014 , proclamandosi Stato del califfato islamico (Sic), un titolo che riflette le sue ambizioni d’autorità su tutti i musulmani del mondo.
La traduzione offre agli acronimi nuove possibilità di moltiplicarsi. Nelle sue prime incarnazioni come Isis, il gruppo voleva mettere in discussione i confini “colonialisti” usando un vecchio nome geografico arabo, al Sham, che comprende sia la capitale siriana Damasco sia la più ampia regione del Levante, il che spiega la predilezione ufficiale statunitense per l’espressione Stato islamico dell’Iraq e del Levante (o Isil) invece che per Isis. L’equivalente arabo, Aldawla al islamiya fi al Iraq wal Sham, può essere abbreviato in Daesh, così come il nome di Hamas (che significa zelo in arabo) per il gruppo palestinese è un acronimo di Harakat al muqawama al islamiya, ovvero Movimento di resistenza islamica.
Daesh è il nome che più si è diffuso nei paesi arabi, anche se i membri del gruppo lo chiamano semplicemente al dawla, lo stato, e minacciano di frustare quanti usano il termine Daesh.
Attribuire nomi sgradevoli a persone sgradevoli è una vecchia tradizione. Un po’come per il termine Nazi, che si è impresso in inglese anche a causa della sua somiglianza con parole come nasty (cattivo, disgustoso), Daesh ha un suono, per gli arabi, simile a quello di parole che significano calpestare, distruggere, sbattere contro qualcosa, e causare tensione.
Cogliendo questo aspetto, la Francia ha ufficialmente adottato il termine per gli usi governativi. Il suo ministro degli esteri, Laurent Fabius, ha spiegato che Daesh ha l’ulteriore vantaggio di non dare al gruppo la dignità di stato. Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu, ha assunto un’analoga posizione di critica, denunciando il gruppo come un “Non-stato non-islamico”. Invece di adottare diligentemente l’acronimo Nins, l’Economist ha deciso, per ora, di continuare a chiamare il gruppo semplicemente Stato islamico (Is).

domenica 26 novembre 2017

Sospeso il blocco dello Yemen, arrivano cibo e medicinali

Dopo quasi tre settimane di blocco dello Yemen, imposto dalla coalizione araba sotto il comando saudita, tre aerei dell'aiuto umanitario delle Nazioni Unite sono atterrati oggi nella capitale Sanaa.
Dopo diverse richieste delle Nazioni Unite, la coalizione ha annunciato mercoledì la riapertura dell'aeroporto di Sanaa e il porto di Hodeida. Un portavoce ha detto che la coalizione ha autorizzato l'arrivo di una quarantina di voli internazionali di aiuti.
Il blocco era stato imposto dalla coalizione all'inizio di novembre, in risposta a un lancio di un missile balistico dallo Yemen intercettato poco prima che si abbattesse nella zona dell'aeroporto di Riad, la capitale saudita. Da allora tutti gli aeroporti, i porti e le strade d'accesso allo Yemen erano stati bloccati.
Il rappresentante dell'Unicef in Yemen, Meritxell Relanao, ha scritto, sul proprio account Twitter, che 1,9 milioni di vaccini sono arrivati a Sanaa già questa mattina. Secondo l'organizzazione, saranno utilizzati soprattutto per proteggere 600.000 bambini contro la difterite e il tetano. Malattie, queste, che si aggiungono all'epidemia di colera che già colpisce lo Yemen e che sino ad oggi ha fatto più di duiemila vittime, secondo i dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.
Lo Yemen sta vivendo "la peggiore crisi umanitaria del pianeta" con quasi sette milioni di persone sull'orlo della fame, dice l'Onu. La guerra in Yemen vede contrapposti le forze governative del presidente Abd Rabbo Mansour Hadied e i ribelli Houthi della maggioranza Zaidi (un ramo dello sciismo). I ribelli occupano Sanaa e Hodeida.

martedì 24 ottobre 2017

IL NOME DI ANNA FRANK, EMBLEMA UNIVERSALE DELLO SDEGNO CONTRO IL NAZISMO, OFFESO DA UN MANIPOLO DI CERVELLI MARCI.

Di fronte agli adesivi esibiti nei giorni scorsi allo stadio Olimpico dagli ultrà della Lazio, si resta immediatamente impietriti nello sconcerto. Che senso ha mostrare il fotomontaggio con il viso di Anna Frank su una maglietta giallorossa per offendere la squadra avversaria?
Che attinenza può avere con la tifoseria del calcio quella dolce, delicata ragazzina olandese che ci ha raccontato persino con grazia anche i dolori della persecuzione subita? Che cos'ha da spartire quell' Anna Frank rispettata, onorata,  ricordata come simbolo universale dell'innocenza straziata e divorata dall'oppressione razzista con una masnada di barbari?
Essere accostati a lei e a ciò che rappresenta dovrebbe essere - ed è - un onore.
Ma l'odio, si sa, quando circola troppo lungo nel sangue degli uomini inquina fino all'impazzimento i loro cervelli.

Nel calderone putrescente dell’ignoranza, dove annaspano tifosi impazziti, il nome di Anna Frank è soltanto quello di un’ebrea. "Oggetto" d'offesa, dunque, che può essere scagliato contro il nemico. Un insulto, con il compito di avvilire chi lo riceve.
Solo degli emeriti imbecilli potevano far cadere simile scelta sulla ragazzina olandese che patì sotto Hitler la "prigionia" in un'angusta soffitta e di cui ci ha lasciato  pagine memorabili nel suo diario. Anna Frank, scovata dai nazisti insieme a tutta la sua famiglia, morì nel 1945 a Bergen Belsen divenendo, con il ritrovamento del suo racconto, il simbolo di un popolo sacrificato all'ottusità di un'aberrazione mentale.
Oggi, quella stessa idea deviante ha ridotto, paragonato la vittima ad uno sfregio, un insulto da lanciare contro i tifosi della squadra avversaria. Nella dissacrazione inflitta ad una icona cara agli uomini di buona volontà, che ripudiano il razzismo, l’antisemitismo e ogni forma di ingiustizia contro l'intera umanità, i tifosi laziali hanno scelto però come arma un boomerang,  che nell'azione di ritorno li travolge con l'efficacia dello sdegno istintivo universale. 
Perché l'immagine stampata sugli adesivi esibiti dagli ultrà laziali è quella di una bambina splendente nella solarità del sorriso e disarmante nello sguardo, nell'ammicco innocente verso l'altro. In quegli occhi c'è l'incondizionata fiducia, tipica del "cucciolo " che ancora necessità della protezione adulta. È il ritratto che risveglia l'istinto di tenerezza, di simpatia, di amore innato degli umani. E del mondo animale in genere. Solo i bruti non ne sono dotati.

Il bel faccino di Anna Frank stampato sulla  maglia della Roma,  più che una provocazione dovrebbe essere una gratificazione  per i romanisti, sempre che non siano mentalmente disturbati come gli avversari. La comunità ebraica di Roma, che ha appena commemorato il rastrellamento del 1943,  potrebbe convertire la propria giusta indignazione in una calibrata provocazione. Proponendo cioè agli ultrà della Lazio di usare come sputi contro gli avversari - dopo quello di Anna Frank- anche i nomi di altri illustri ebrei quali:
Leon Trotsky, Albert Einstein, Sigmund Freud, Baruch Spinosa, Enrico Fermi, Rita Levi Montalcini, Gorge Gershwin, Leonard Bernstein, Marc Chagall, Amedeo Modigliani, Franz Kafka, Marcel Proust, Boris Pasternak, Alberto Moravia (Pincherle), Umberto Saba, Italo Svevo, Elsa Morante, Primo Levi, Woody Allen, Mel Brooks, i fratelli Marx, Steven Spielberg, Stanley Kubrick, Roman Polanski, Oliver Stone, Marilyn Monroe, Paul Newman, Cary Grant, Harrison Ford, Kirk Douglas, Mikael Douglas, Richard Gere, Sarah Bernhardt, Carol Kane, Jon Stewart, Jerry Lewis, Marcel Marceau, Winona Ryder, Peter Sellers, Dustin Hoffman, Marty Feldman, Walter Matthau, Tony Curtis, Peter Falk, Bob Dylan, Barbara Streisand, Arnoldo Foà, Leonard Cohen, Bruno Pontecorvo, Scarlett johansson, Natalie Portman,  Leone Gizburg e Natalia Giznburg,Golda Meir, Henry Kissinger, Bill Gates, Mark Zuckerberg, Giorgio Gaber, Dario Fo, Julio Iglesias, Calvin Klein, Harry Houdini...

Tanto per citarne alcuni.  E per non parlare del più noto degli israeliti, il Nazareno, quel Gesù appartenente alla tribù di David.

D. Bart.




domenica 22 ottobre 2017

Malawi - Povertà, superstizione, stregoneria. Uccisioni per la caccia ai "vampiri"

Tra superstizione e stregoneria, in Malawi, uno dei Paesi più poveri del mondo, si è scatenata una insensata caccia al vampiro che, da settembre ad oggi,  avrebbe fatto già sei incolpevoli vittime.

Persone che, in un crescendo di violenze, hanno pagato con la vità il dilagare della paura contro i ''succhiatori di sangue'', come vengono chiamati. Non si tratta di creature demoniache nel senso di quelle tramandate dalle leggende europee o dalla penna di uno scrittore (come il Dracula di Bram Stoker), ma di uomini sospettati di nutrirsi del sangue altrui. E non si tratta di una caccia per modo di dire, perchè, nelle scorse ore, a Blantyre, secondo centro per dimensioni del Paese, due persone sono state linciate da un gruppo di autonominatisi vigilantes.

Una delle due vittime, ha riferito un portavoce della polizia, era un ragazzo di 22 anni, affetto da epilessia , sorpreso dai 'cacciatori di vampiri' non appena uscito dall'ospedale. E' stato circondato picchiato e dato alle fiamme. Stessa sorte, a distanza di poche ore, per la seconda vittima, un uomo  lapidato per strada.

A fare le spese dell'ondata di violenza, in un Paese in cui la stregoneria è molto seguita, sono stati anche due belgi che il 15 settembre, a bordo di un 4x4 dopo un viaggio in Sud Africa, sono stati aggrediti e feriti gravemente, mentre il loro automezzo è stato fatto a pezzi.

Questa follia ha costretto il presidente del Malawi, Peter Mutharika, a recarsi nei distretti meridionali del Paese, teatro delle uccisioni, per cercare di fermare la violenza. Che non è solo comunque di un pugno di folli che pensano che esistono i vampiri e che uccidono chiunque per loro passi la sua vita a succhiare il sangue.
Il dilagare della violenza, legata alla criminalità comune, ha indotto l'ambasciata degli Stati Uniti e le Nazioni Unite a sconsigliare di visitare i distretti interessati dal fenomeno ed a diminuire la presenza di loro rappresentanti.

Globalist

venerdì 20 ottobre 2017

È salito a 15.000 il numero di rifugiati bloccati al confine tra Bangladesh e Myanmar

A partire da domenica notte, almeno 15.000 rifugiati Rohingya sono entrati in Bangladesh passando il confine a Anjuman Para nel distretto di Ukhia nel sud est del Paese.

Molti avevano deciso di restare in Myanmar, nel nord dello Stato di Rakhine, nonostante le continue minacce di morte ricevute, ma quando i villaggi sono stati inciendiati non è rimasta altra loro altra scelta se non quella di fuggire.

I rifugiati, con i quali i membri dello staff di UNHCR hanno parlato ieri, raccontano di aver camminato per una settimana intera prima di raggiungere il confine con il Bangladesh, alcuni lo hanno attraversato domenica notte, altri lungo tutta la giornata di lunedì tra il caldo e le piogge.

Attualmente sono accampati nelle le risaie del villaggio di Anjuman Para. Attendono il permesso per allontanarsi dal confine, da dove ogni notte è possibile sentire gli spari dal versante del Myanmar.

I volontari stanno distribuendo cibo e acqua alle donne e ai bambini, fortemente disidratati e affamati dopo un lungo cammino. Lo staff dell’UNHCR sta lavorando con Medici Senza Frontiere per identificare le persone malate e che hanno bisogno di assistenza medica.

Pressioni d' urgenza vengono inoltrate da ore alle autorità del Bangladesh affinché consentano l’ingresso a queste persone che fuggono dalle violenze e dalla difficile situazione nel loro Paese d’origine. Ed ogni minuto conta per chi è già in condizioni disperate.

Per far fronte a questo nuovo afflusso di richiedenti, l’UNHCR sta lavorando con il governo e altri partner all'installazione di un nuovo centro di transito dentro l’insediamento di Kutupalong; l'area potrebbe ospitare  1.250 persone. Sono in corso anche i preparativi per accogliere i nuovi arrivati nelle scuole di Kutupalong.

A partire dallo scorso 25 agosto sono circa 582.000 i rifugiati arrivati in Bangladesh dal nord dello Stato di Rakhine in Myanmar Tutti in fuga per sottrarsi alla nuova ondata di violenze in atto. 

I Rohingya costituiscono la minoranza etnica musulmana che vive nello stato occidentale del Rakhine,

L' esercito della Birmania è accusato di pulizia etnica ai danni della minoranza musulmana, mentre il governo birmano incolpa i militanti Rohingya.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito un "genocidio" le violenze perpetrate contro i Rohingya. "Coloro i quali chiudono gli occhi su questo genocidio perpetrato sotto la copertura di una democrazia ne sono collaboratori", ha detto Erdogan. 

I Rohingya sono ormai considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo: musulmani in una Birmania a maggioranza buddhista. Sono poco meno di un milione su una popolazione totale di 50. La maggior parte di loro vive nello stato di Rakhine - in passato si chiamava Arakan, da cui il nome del loro movimento - e sono in Birmania da generazioni anche se originari del vicino Bangladesh. Nel 1982 la giunta militare li ha privati della cittadinanza per essere arrivati dopo il 1823, inizio della colonizzazione britannica. I Rohingya sostengono invece si essere discendenti dei mercanti musulmani che secoli prima entravano in Birmania per motivi commerciali. Ancora oggi senza cittadinanza i Rohingya non hanno diritto di voto, hanno grossi limiti nell'accesso all'istruzione,  alla sanità, alla proprietà. 

Ricevono spesso solo un'istruzione religiosa che li rende particolarmente esposti ai pericoli del  fondamentalismo e del radicalismo.

La situzione è ulteriormente degenerata nel 2012: da quel momento si calcola che almeno 160 mila Rohingya abbiano abbandonato la Birmania. Principalmente verso il Bangladesh, ma anche verso la Malesia, la Thailandia e l’Indonesia. 


D.Bart.





mercoledì 18 ottobre 2017

SU RAQQA LIBERA SVENTOLANO LE BANDIERE DEI VINCITORI, MA I DISSIDI TRA COMUNITÀ DIVERSE MINACCIANO ANCORA UNA PACE VERA.


Le bandiere delle Forze democratiche siriane (Fds) che sventolano nello stadio di Raqqa, capitale del Califfato sconfitto, sono soltanto un'illusione di pace vera. Sulle rovine della città straziata da anni di feroce occupazione jihadista e dai furiosi bombardamenti della coalizione anti-Daesh grava ancora l'ombra minacciosa di nuovi conflitti tra comunità portatrici di convinzioni in forte contrasto fra loro. Le fotografie con i peshmerga curdi che sventolano i loro gialli vessilli somigliano a quelle di altre liberazioni, anche europee, festeggiate dopo la sconfitta degli invasori. Simili sono le distruzioni delle case e le sofferenze della popolazione civile, con migliaia di morti, feriti e un numero altissimo di profughi.
Ma le condizioni del dopo-guerra, a Raqqa, sono diverse e più difficili. Nell'Europa del 1945, ad esempio, caduto il Terzo Reich, si poté ricostruire una nuova Germania, sia pure divisa, che ripudiava gli orrori del nazismo e che è tornata al centro del continente europeo. Raqqa, ora che sono state sgominate le milizie jihadiste e che i vertici del Califfato sono o morti o scomparsi in qualche tana del deserto, ritornerà solo a essere la periferia di un Paese lacerato e diviso come è la Siria di oggi.
Resta il fatto positivo che, con la caduta di Raqqa, tramonta definitivamente il sogno di uno stato islamico, che aveva galvanizzato e fatto sognare migliaia di musulmani innamorati della malvagia radicalità del sunnismo fondamentalista. Purtroppo la sconfitta del Califfo non comporta l'automatica scomparsa dell’ideale del jihad globale. Anzi, proprio il collasso territoriale di Daesh spinge molti dei cosiddetti foreign fighters, ossia i volontari accorsi da tutto il mondo a combattere per il califfo, a cercare di tornare nei Paesi d’origine. Con il rischio concreto di un aumento degli attacchi terroristici indiscriminati, a bassa intensità, come quelli subiti più o meno recentemente da  Europa e Nordafrica.

In Medio Oriente, nulla è stato  programmato per il "dopo-guerra". Vinta la battaglia, sbaragliato il Califfato, i fautori della riconquista -  milizie a maggioranza curda, fortemente sostenute dagli Usa-  non hanno messo a punto un programma.
Raqqa non è mai stata e non può essere una città "curda". E allora, con chi tratteranno le milizie? Con il regime di Assad, militarmente più forte, oppure con le forze arabe di opposizione, frammentate e deboli?
Combattere il Daesh e i suoi militanti ha permesso in questi anni ad attori diversi e fortemente contrapposti di agire uniti e affiancati. Ma ora che l’emergenza è finita, le vecchie divisioni riemergeranno, riaprendo inevitabilmente nuovi fronti di battaglia. Lo sanno bene gli stessi curdi, che negli ultimi anni avevano "occupato" territori contesi con gli arabi in Iraq. Proprio in questi giorni, in seguito allo sciagurato referendum per l’indipendenza lanciato dal governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg), sono esplose le tensioni con Baghdad. Le forze irachene hanno mostrato i muscoli, obbligando i peshmerga a ritirarsi precipitosamente dalla città di Kirkuk, da sempre contesa fra le parti, e anche dal Sinjar, un distretto occupato dai curdi durante la guerra con il Daesh. Con gli iracheni si sono schierati l’Iran e la Turchia, ostili a ogni idea di Kurdistan indipendente, mentre Washington è rimasta palesemente spiazzata dalle tensioni, dato che sostiene entrambe le fazioni.

L’imperizia – o le ambizioni eccessive – del governo curdo di Erbil sono certo una causa di questo nuovo fronte di crisi. Ma, a un livello più profondo, ciò che manca nella regione è la capacità di percepire l’insicurezza e il disagio delle altre comunità etnico-religiose. L’indifferenza verso le ragioni dell’altro, allorché non collimino con le proprie, è politica quotidiana.
In Iraq, come in Siria e ovunque in Medio Oriente, si possono vincere guerre, ma sconfiggere il terrorismo non è un obiettivo militare, bensì politico, sociale, economico e culturale. La pace non è precisamente assenza di guerra; significa rimuovere le cause di ostilità fra comunità che vivono sullo stesso territorio. Una vittoria rischia di essere vana se si limita allo sventolio di una bandiera sulle rovine di una scuola, di un ospedale o di edifici civili. La vittoria vera, garante di pace è soprattutto saper ricostruire ciò che è stato distrutto rendendolo disponibile a tutti: uomini, donne, bambini, giovani e vecchi a prescindere da religione, lingua o razza.

D.Bart.

martedì 17 ottobre 2017

SIRIA - Raqqa è stata liberata. Oltre mille i civili uccisi nella guerra.


Raqqa è stata riconquistata dalle forze d'alleanza curdo-araba sostenuta da Washington.
Le milizie filo-Usa hanno issato oggi la propria bandiera all'interno dello stadio, ultimo bastione siriano dell'Isis nella cosiddetta capitale del Califfato. Nei dintorni della citta proseguono sporadici combattimenti, laddove resistono ancora alcune sacche di jihadisti fedeli al Califfo.
Pesantissimo il costo umano di quest' ultima battaglia che conta 3.250 morti, tra i quali 1.130 civili. Bilancio peraltro provvisorio perché
secondo l'Osservatorio per i diritti umani Ondus "altre centinaia di persone mancano ancora all'appello e potrebbero essere rimaste sepolte vive nelle loro case bombardate dai raid aerei".

Isis: primo raid degli Usa in Yemen, decine di morti.


    

Il primo attacco aereo degli Usa contro l'Isis in Yemen ha prodotto la distruzione di due campi di addestramento e l'uccisione di "decine" di miliziani. Questo l'annuncio del Pentagono: "I raid hanno minato i tentativi dell'organizzazione di addestrare nuovi combattenti". Fonti della Cnn affermano che nei luoghi colpiti  vi fossero almeno 50 miliziani dell'Isis. I due campi, situati nel governatorato di al Bayda, venivano utilizzati per addestrare i miliziani a compiere attacchi con Ak47, mitragliatrici, lanciarazzi.
"L'Isis - dice un comunicato del Pentagono - ha usato i territori fuori controllo in Yemen per pianificare, dirigere, ispirare, reclutare per attacchi terroristici contro l'America e i suoi alleati in tutto il mondo. Per anni, lo Yemen è stato un hub per i terroristi". Le Forze Usa starebbero sostenendo le operazioni antiterrorismo contro l'Isis e l'Aqap -al Qaida nella Penisola arabica, - per ridurre le capacità dei due gruppi di coordinare attacchi esterni e mantenere il controllo di pezzi di territorio nel Paese.

martedì 10 ottobre 2017

AFGHANISTAN 16 ANNI DOPO. QUANTO È COSTATA ALL' ITALIA LA CAMPAGNA MILITARE.

L’Osservatorio MIL€X sulle spese militari italiane pubblica il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo”,  per tracciare un inedito bilancio, non solo economico, della più lunga e costosa campagna militare della storia d’Italia.
Ecco il link per scaricare il rapporto dal mio sito: https://www.donatellabartolini.info/documenti/

(fonte: http://milex.org/)


venerdì 25 agosto 2017

Le truppe irachene e le milizie sciite vicine al centro di Tal Afar, ultimo baluardo dello Stato islamico nell'Iraq settentrionale


Le truppe irachene e le milizie   supportate da Usa ed Iran sono ormai vicine al centro di Tal Afar, l'ultimo baluardo dello Stato islamico nell' Iraq settentrionale e linea diretta di comunicazione con la Siria.

Penetrate le linee difensive, le
le forze di Baghdad puntano alla sconfitta definitiva e totale del gruppo jihadista, ma in città i 30.000 civili intrappolati potrebbero essere utilizzati come scudi umani.

I carri armati dell'esercito e delle milizie Hashd a Shaabi sono entrati nel quartiere di Al Nur, sud-est della città, mentre gli aerei attaccavano diverse posizioni strategiche indicate dalle forze della coalizione.

I jihadisti ostacolano l'avanzata bloccando le strade principali con autocarri e cumuli di sabbia , mentre i cecchini sparano sulla fanteria.

Lunedi, le forze paramilitari Hashd a Shaabi, note anche come unità di mobilitazione popolare, hanno annunciato di aver ripreso il controllo dei distretti militari e di polizia di Al Kifah Al Askari.

Truppe e blindati "sono entrati ad Al Kifah Nord, e sono diretti verso il centro della città ", ha dichiarato ufficialmente Ahmed al Asadi, portavoce di Hashd a Shaabi. "Tutte le linee di difesa ISIS intorno alla città sono state penetrate e le truppe avanzando da ogni direzione verso i quartieri interni.

Tuttavia, il fuoco dei cecchini jihadisti, supportato da attentati suicidi ed autobombe, sta infliggendo gravi perdite e danni alle forze irachene, costringendo la fanteria a rallentare la loro avanzata.
La stessa tattica era stata messa in atto durante la riconquista di Mosul.
Le forze irachene hanno anche scoperto una rete di tunnel utilizzati dai jihadisti per sorprendere le truppe.

Il dramma dei civili

Per evitare attacchi a sorpresa, soprattutto di notte, le forze di coalizione hanno distribuito volantini  invitando i residenti a segnare le proprie case.
Si calcola che a Tal Afar siano bloccate 30.000 persone costrette incessantemente a subire,  dal cielo, gli attacchi dagli  aerei iracheni e, da terra, l' intenso fuoco d' artiglieria.
Ulteriore rischio per i cittadini di Tal Afar è quello di essere utilizzati come scudi umani. Lo ha più volte denunciato  il portavoce dell'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), Stéphane Dujarric.

ONU e ONG umanitarie stanno organizzando  l'installazione di luoghi di accoglienza per gli sfollati in fuga. Nelle aree desertiche ad alte temperature, dove si raggiungo in media 43 ° C, a volte per più di 10 ore, il rischio di grave disidratazione è altissimo.

Ma la battaglia di Tal Afar è una tappa troppo importante. nell'offensiva di riconquista antiyihadista.
Nel 2014, dopo una serie di attacchi lampo, l'ISIS aveva conquistato un terzo dell'Iraq.

Riprendere Tal Afar, a circa 60 chilometri dal confine con la Siria, renderà più difficile il transito di uomini e di armi tra i due paesi.
L'offensiva, nonostante gli ostacoli posti dai cecchini, progredisce rapidamente rispetto a quella di Mosul,  che aveva richiesto otto mesi e 23 giorni di combattimenti, strada per strada.
Vinta questa campagna, ISIS manterrà solo due regioni del paese: Hawija, nel sud, dove Baghdad sta preparando un nuovo attacco, e una parte di Al Anbar, provincia scarsamente popolata, in pieno deserto, al confine con la Siria.

D.Bart.

domenica 20 agosto 2017

IRAQ: DOPO MOSUL, ESERCITO IN AZIONE PER LA RICONQUISTA DI TAL AFAR

"Arrendersi o morire": l'alternativa che le forze irachene hanno offerto ai jihadisti annunciava, terrificante, l'offensiva  scattata nella notte per la riconquista di Tal Afar, una delle ultime città del paese ancora nelle mani dello Stato islamico.

Per consentire l'operazione di terra,aerei militari iracheni hanno bombardato le posizioni dei jihasisti in città per diversi giorni. La popolazione civile era avvertita con i volantini.

"IL MONDO INTERO È CON VOI": così il primo ministro Haider al-Abadi ha incitato le truppe al combattimento che promette una vittoria senza sconti.
“Sto dicendo a Daesh che non c’è altra scelta se non arrendersi o morire”, ha detto il presidente Abadi quando, vestito in uniforme militare nera, in piedi davanti a una bandiera irachena e ad una mappa del paese, ha annunciato “l’inizio dell’operazione per liberare Tal Afar”.

L’operazione sarà supportata dalle truppe americane.
“La coalizione è forte e pienamente impegnata a sostenere i nostri partner iracheni finché l’Isis non sarà sconfitto e il popolo iracheno non tornerà libero”, ha dichiarato il generale statunitense Stephen Townsend aprendo l'operazione.

L'offensiva di Tal Afar segue a stretto giro la riconquista di Mosul, la principale roccaforte dell’Isis, avvenuta lo scorso nel mese di luglio.

Tal Afar, che ha una popolazione prevalentemente sciita, era caduta nelle mani dell’Isis nel 2014. È situata sulla strada tra Mosul e il confine siriano, quindi via strategica di approvvigionamento per il gruppo jihadista.

I calcoli della coalizione anti-Isis circa il numero di persone attualmente presenti all'interno di Tal Afar o nelle sue immediate vicinanze sono assai approssimativi: dai 50mila ai 100mila civili.

Oltre a Tal Afar, l’Isis controlla ancora le terre tra Ana e Al-Qaim nella valle dell' Eufrate, e tutto il territorio intorno a Hawija.

D.Bart.

domenica 13 agosto 2017

RIFUGIATI E UMANITÀ VIOLATA. RIPARTE LA STAGIONE BUIA DEI RESPINGIMENTI?

Per contrastare l’arrivo dei rifugiati dalla Libia il Governo italiano corre il rischio di commettere gravissime violazioni del diritto internazionale. E ciò significherebbe ripiombare nella la stagione buia dei respingimenti per i quali l’Italia era stata già condannata dalla corte europea dei diritti dell’uomo.

È il presagio espresso dall’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione), che ha voluto dire la sua  sulle imperfezioni  della linea politica nell’ area del Mediterraneo intrapresa dal Governo italiano con il governo libico guidato da Al-Serraj. L'uomo rappresenta infatti un’autorità pressoché illegittima, se si tiene conto della  scarsa competenza effettiva che ha sull'intero territorio, nonostante abbia ottenuto legittimazione internazionale.

Appare perciò ingiusto, sbagliato destinare ingenti risorse dello Stato italiano (e quindi dei cittadini) per il sostegno di formazioni libiche in un territorio che esse non controllano completamente e dove non è possibile fare alcuna reale distinzione tra i diversi responsabili delle violenze che vengono inflitte alle popolazioni in fuga: sia dalle diverse milizie armate che dalle sedicenti autorità governative.

In Libia non esiste attualmente alcun sistema giuridico in grado di garantire un’azione penale indipendente verso i presunti trafficanti di esseri umani,
né per tutelare i fondamentali diritti dei più sfortunati.
Anzi, secondo una lettera di esperti dell’ONU, il Dipartimento di Contrasto all’Immigrazione Illegale e la Guardia Costiera sono direttamente coinvolti in gravissime violazioni di tali diritti.

Il rinvio in Libia dei migranti, pertanto, violerebbe le convenzioni internazionali sul soccorso in mare in quanto nessun porto libico può attualmente essere considerato “luogo sicuro” ai sensi della Convenzione per la ricerca e il soccorso in mare del 1979 (SAR), perché  la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita risulta  minacciata, mancando le condizioni minime di accesso ai diritti fondamentali necessari .

Le gravissime violenze perpetrate nei campi libici: le torture con scariche elettriche, i pestaggi, gli stupri sulle donne scandiscono una routin dell'orrore testimoniata e documentata da innumerevoli rapporti autorevoli e indipendenti. È possibile che tutto ciò non sia ancora arrivato alla conoscenza del nostro Governo né al Ministro dell’Interno?
No, certo! Tanto che il Ministro della Giustizia italiano, considerata la gravità dei fatti, ha dovuto  decidere di far celebrare in Italia i procedimenti a carico degli autori delle violenze.
In un procedinento che si sta celebrando presso la Corte d’assise di Milano, e nel quale ASGI è costituita parte civile, la stessa Pubblica accusa ha fatto emergere un quadro di inaudita crudeltà: violenze sessuali ripetute, omicidi di coloro che non ricevono dai familiari il denaro richiesto dai trafficanti, torture, e persino l' esposizione dei corpi dei morti dopo le torture per ottenere un effetto deterrente.

ASGI dice pertanto che :
– Agire a sostegno dell’attuale provvisorio Governo libico, sostenendo azioni che hanno come obiettivo, o comunque come effetto, quello di riportare in detto Paese i migranti che da esso stanno fuggendo costituirebbe una scelta inaudita da parte di un Paese avente un solido ordinamento democratico, nonché membro della UE.

– Partecipare attivamente, con propri mezzi e uomini, ad operazioni condotte dentro o fuori dalle acque libiche, finalizzate a respingere i migranti e a ricondurli in Libia, configurerebbe la responsabilità internazionale dell’Italia per violazione del divieto di refoulement (art. 33 Conv. di Ginevra) e degli analoghi obblighi derivanti dalla CEDU.

– Nessuna operazione di contrasto al traffico può quindi essere condotta dalle autorità libiche da sole o in collaborazione con quelle italiane o di qualunque altro Paese, senza che venga parallelamente garantita la sicurezza e i diritti delle persone coinvolte nel traffico, ovvero il loro trasporto in un luogo sicuro dove siano protetti dal rischio di tortura e dove, se lo richiedono, possono accedere alla protezione internazionale.

D.Bart

SIRIA. 11 milioni di profughi. Costretti a fuggire ancora i pochi tornati a casa


Oltre 600.000 siriani fuggiti  agli inizi della guerra civile hanno fatto ritorno alle proprie case; per contro, altri circa 800.000 sono stati costretti a scappare a causa di nuovi combattimenti: per alcuni è la seconda o terza volta.

La situazione dei profughi, secondo il rapporto appena diffuso dall'Oim, (Organizzazione internazionale per le migrazioni dell'Onu), rimane drammatica. In un Paese che all'inizio del conflitto, nel 2011, contava 22 milioni di abitanti, oltre 6 milioni rimangono sfollati all'interno dei confini e quasi 5 milioni all'estero, per la maggior parte in Turchia, Libano e Giordania e, in misura minore, in Iraq ed Egitto.

L'84% di coloro che hanno potuto fare ritorno nei luoghi di origine erano sfollati interni, solo il 16% è rientrato
dall'estero. Si tratta, almeno per la metà, di cittadini della provincia di Aleppo, come già si era visto nel 2016, quando i ritorni erano stati 686.000 durante tutto l'arco dell'anno. Anche allora, però, in 42.000 furono costretti a ripartire per sottrarsi alla furia dei combattimenti.

Il presidente Tayyip Recep Erdogan ribadisce oggi che le autorità turche consentono il passaggio dal loro territorio di aiuti umanitari, cibo e materiali utili alla ricostruzione edile nella regione siriana nord-occidentale di Idlib, fuori dal controllo delle forze di Damasco.

Parlando al termine della preghiera comunitaria del venerdì, Erdogan ha ripetuto che la Turchia non consente l'invio in Siria di armamenti. L'area di Idlib è in parte controllata da miliziani qaedisti, che alla fine di luglio sono riusciti a cacciare dalla zona i loro rivali jihadisti del gruppo di Ahrar ash Sham. Durante gli scontri la Turchia aveva chiuso la frontiera.

giovedì 27 luglio 2017

L' INUTILE PRESENZA DELL' ONU E I DRAMMI DI YEMEN, LIBIA, SIRIA.


Credo che ormai nessuno al mondo possa ancora sostenere e difendere la sussistenza dell'ONU. l’Organizzazione delle Nazioni Unite, di fronte alle  immani tragedie dei popoli più sfortunati, consegna a quello stesso mondo che dovrebbe proteggere, l’immagine di un organismo totalmente inutile.
Di fronte alle tragedie che sconvolgono il mondo e all’incapacità delle superpotenze di prevenire i conflitti armati, l’ONU dovrebbe rappresentare una piattaforma fondamentale per dirimere le controversie.
Ma il sangue che bagna i teatri di guerra della Siria e dell’Iraq, dello Yemen e della Libia, la devastazione delle guerre in Africa, le crisi internazionali e il terrorismo mostrano a tutto il mondo l’assoluta incapacità  di un organismo fallimentare.  L’ONU è costantemente assente, e i suoi organi sono più che altro complessi palcoscenici in cui si confermano le stesse tendenze della politica internazionale. In assenza di un potere coercitivo, ma soprattutto legato dalle stesse regole che hanno imposto le nazioni nel momento della creazione di questa organizzazione, l’ONU è entrato in una crisi profondissima e non ha più alcun valore politico reale.

I conflitti contemporanei, senza parlare delle guerre più risalenti nel tempo, sono l’indice dell’assoluta futilità delle decisioni del Palazzo di Vetro. In molti casi, l’intervento armato degli Stati ha bypassato completamente qualsiasi dichiarazione delle Nazioni Unite.
In Siria è stata violata la sovranità nazionale di Damasco senza che l’ONU intervenisse quantomeno per regolare questo conflitto. In Iraq, di fronte all’avanzata dello Stato Islamico, quando stava ancora nascendo, nessuno ha pensato di intervenire per tutelare la popolazione civile né per impedire che il Califfato dilagasse.
In Libia ha tentato di intervenire all’inizio della guerra civile, cercando di mediare e di difendere la popolazione con inutili no-fly zones, ma il suo intervento è stato irrisorio, superato di gran lunga dagli interessi francesi, britannici e americani nel far finire il governo di Gheddafi e imporre un regime-change che non era richiesto in sede ONU. Ha poi sostenuto Serraj, e ora la Libia non solo è divisa e devastata dalla guerra, ma l’unico governo che le Nazioni Unite riconoscono, cioè quello che in teoria dovrebbe avere un certo potere effettivo sul Paese, in realtà ha il controllo di poche aree ed i Paesi limitrofi scendono a patti con le tribù del Fezzan e con Haftar prima che con Tripoli. Vedremo che cosa sortirà il blitz di Macron, ma la situazione non è semplice.
In Yemen, infine, l’orrore di una guerra ma soprattutto di un disastro umanitario senza precedenti: morti causati dai bombardamenti sauditi, una guerra civile in cui si massacrano intere popolazioni ed un Paese in preda alla peggiore epidemia di colera degli ultimi decenni, eppure l’ONU non interviene.

Perché? Sicuramente perché le potenze mondiali non hanno alcun interesse ad avere un’organizzazione internazionale autonoma in grado di poter superare il potere degli Stati. l’ONU stessa, ormai, si trova in un circolo vizioso per cui sopravvive grazie al fatto che gli Stati possono avere ruoli al suo interno. In Yemen, appunto, l’ONU non ha fatto nulla di fronte alla catastrofe umanitaria, semplicemente perché non poteva. Il disfacimento del Paese è  stato infatti provocato dall’Arabia Saudita, che è lo stesso Paese posto dalle  Nazioni Unite a capo della Commissione per i Diritti Umani. È del tutto evidente il  cortocircuito, tale per cui l’ONU non può agire autonomamente. Resta pertanto solo una declinazione della geopolitica mondiale all’interno del Palazzo di Vetro. E come lo Yemen, così tutti gli altri conflitti dimostrano che è la politica internazionale a bloccare ogni possibile attività delle Nazioni Unite.
Dunque cosa resta di un progetto ambizioso di un organismo sovranazionale di livello planetario in grado di dirimere le controversie fra Stati prima che degenerino nella guerra? Sostanzialmente nulla. Le Nazioni Unite sono ormai un palcoscenico per gli attori mondiali che alla fine decidono le sorti del mondo in altri contesti. Del resto, basta osservare il meccanismo di funzionamento del Consiglio di Sicurezza – con il potere di veto assegnato ai vincitori della Seconda Guerra Mondiale – per capire chiaramente come stanno le cose. Il potere d’intervento  nelle guerre in cui confliggevano gli interessi strategici di Russia e Stati Uniti in primis, ma poi anche degli altri Membri, non è mai stato posto nelle mani l’ONU, relegata, viceversa, a missioni di secondo piano.

Le Nazioni Unite sono diventate nel tempo una sorta di ONG mondiale che deve piegarsi al potere degli Stati. Si occupa  dei rifugiati, o di progetti di sviluppo; tenta mediazioni politiche per dirimere conflitti che avranno comunque risoluzione in altre sedi. Nel suo fallimento c’è l’immagine del cambiamento della politica mondiale negli ultimi anni. Prima non funzionava per lo scontro tra Unione Sovietica e Stati Uniti, ora non funziona per via di un mondo multipolare, in cui gli USA, da potenza incontrastata degli anni Novanta e dei primi del Duemila, si sono trasformati in attori tra i tanti Influenti ma non unici. Del resto, un’Organizzazione che decide di inserire l’Arabia Saudita nel Comitato per i diritti della donna dovrebbe essere immediatamente soppressa.

D.Bart.

martedì 4 luglio 2017

Sud Sudan. Le atrocità del conflitto hanno trasformato Equatoria in un campo di morte.

Ci sono migliaia di sfollati nella regione di Equatoria, il granaio del Paese. È qui che la crisi dei rifugiati che sta crescendo più rapidamente rispetto al resto del mondo nel mondo.
Civili uccisi, pugnalati a morte coi machete e bruciati nelle proprie case;
donne e bambine rapite per essere sottoposte a stupri di gruppo.
In un rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha denunciato che un nuovo fronte del conflitto del Sud Sudan ha causato atrocità, terrore e fame e costretto nell’ultimo anno centinaia di migliaia di persone ad abbandonare la fertile regione di Equatoria.

Nel mese di giugno, l'organizzazione umanitaria ha documentando come soprattutto le forze governative, ma anche quelle di opposizione, abbiano commesso crimini di diritto internazionale, compresi crimini di guerra, contro la popolazione civile.
Queste atrocità hanno costretto alla fuga verso l’Uganda quasi un milione di persone.
“L’aumento delle ostilità nella regione di Equatoria ha significato brutalità ancora più diffuse contro i civili. Uomini, donne e bambini sono stati uccisi, pugnalati a morte coi machete e bruciati vivi nelle loro abitazioni. Donne e bambine sono state rapite e sottoposte a stupri di gruppo”, ha dichiarato Donatella Rovera, Alta consulente di Amnesty International per le risposte alle crisi, appena rientrata dal Sud Sudan.
Abitazioni, scuole, ambulatori e sedi delle organizzazioni umanitarie… tutto è stato razziato, vandalizzato e raso al suolo. Il cibo viene usato come arma di guerra.
Le atrocità raccontate sono tuttora in corso. Centinaia di migliaia di persone che solo un anno fa si sentivano al riparo dal conflitto, ora sono fuggono.
Per quasi tre anni la regione di Equatoria, nella parte meridionale del Sud Sudan, era stata prevalentemente risparmiata dal conflitto esploso nel 2013 tra le forze dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan fedeli al presidente Salva Kiir e quelle legate all’allora vicepresidente Riek Machar.
Intorno alla metà del 2016 sia le forze governative che quelle di opposizione si sono dirette verso Yei, un centro strategico di 300.000 abitanti 150 chilometri a sud-ovest della capitale Giuba, lungo un’importante arteria commerciale verso l’Uganda e la Repubblica Democratica del Congo.
Le forze governative, appoggiate da milizie locali tra cui la famigerata e impunita “Mathian Anyoor” (composta per lo più da giovani combattenti di etnia dinka), si sono rese responsabili di una lunga serie di violazioni dei diritti umani. Sebbene su scala minore, anche i gruppi armati di opposizione hanno compiuto gravi abusi.
Massacri e uccisioni deliberate

Numerosi testimoni oculari dei villaggi intorno a Yei hanno raccontato come le forze governative e le milizie loro alleate abbiano ucciso numerosi civili in modo deliberato e con accanimento.
In uno di questi casi, la sera del 16 maggio i soldati hanno arrestato 11 uomini del villaggio di Kudupi, nei pressi del confine ugandese. Hanno costretto otto di loro a entrare in una capanna, ne hanno chiuso la porta, hanno appiccato il fuoco e sparato alla cieca. Secondo quattro dei sopravvissuti  due dei prigionieri sono arsi vivi e altri quattro sono stati uccisi dai proiettili.
Joyce, una madre di sei figli del villaggio di Payawa, ha raccontato quanto accaduto il 18 maggio, quando suo marito e altri cinque uomini sono stati uccisi dai soldati:
“Era la quinta volta che l’esercito attaccava il villaggio. Le volte precedenti si erano presi delle cose, avevano portato via degli uomini per torturarli e delle ragazze per stuprarle, poi le avevano liberate. Lo hanno fatto anche a Susie, la nipote di mio marito, di 18 anni. Era il 18 dicembre scorso”.

Il 21 maggio 2017 nove abitanti del villaggio di Gimuni sono stati rapiti dai soldati. La polizia locale ha ritrovato i loro corpi, segnati dai colpi di machete, intorno alla metà di giugno. Com’è normale quando i soldati uccidono dei civili, nessuno è stato chiamato a risponderne.
Gli attacchi contro i villaggi da parte delle forze governative paiono spesso motivati dal desidero di rappresaglia contro le forze armate di opposizione attive nella zona. I combattenti dell’opposizione hanno a loro volta compiuto uccisioni deliberate di civili sospettati di parteggiare per il governo o per il solo fatto di essere di etnia dinka o rifugiati provenienti dai monti Nuba, ritenuti dalla parte del governo.

-Stupri e altra violenza sessuale e di genere-

Con l’intensificazione dei combattimenti, il numero dei rapimenti e degli stupri di donne e bambine è cresciuto vertiginosamente.
“Il solo modo di essere al sicuro per donne e ragazze è quello di essere morte. Non c’è modo di esserlo fino a quando sei viva. È brutto da dire ma la situazione è questa…“, ha detto Mary, 23 anni, madre di cinque figli.
Nell’aprile 2017 tre soldati hanno fatto irruzione nella sua abitazione in piena notte e due di loro l’hanno stuprata. Lei si è trasferita in un’altra abitazione abbandonata ma una notte uno sconosciuto ha appiccato il fuoco, costringendo la famiglia a fuggire ancora una volta.
Le donne rischiano di essere stuprate soprattutto quando, a causa della scarsità del cibo e dei continui saccheggi, vanno a cercare qualcosa da mangiare nei campi intorno ai villaggi.
Sofia, 29 anni, ha raccontato di essere stata rapita due volte dai gruppi armati di opposizione. L’hanno tenuta prigioniera insieme ad altre donne per un mese la prima volta e per una settimana la seconda volta, stuprandola ripetutamente in entrambe le occasioni, sebbene supplicasse di essere risparmiata in quanto madre di tre figli e vedova di un uomo ucciso dalle forze governative.
In seguito, Sofia è fuggita a Yei dove ha grande difficoltà a procurare da mangiare alla sua famiglia.

- Il cibo come arma di guerra-

L’accesso della popolazione civile al cibo è estremamente limitato. Sia il governo che i gruppi di opposizione hanno bloccato le forniture in determinate zone, si dedicano a saccheggiare i mercati e le abitazioni private e prendono di mira chi prova a passare lungo la linea del fronte anche con una minima quantità di cibo. Ognuna delle parti accusa i civili di passare cibo a quella avversa o di essere sfamata da questa.
A Yei, dove la maggior parte degli abitanti è fuggita nel corso dell’ultimo anno, i pochi civili rimasti sono praticamente sotto assedio. Non potendo più andare in cerca di cibo nei campi, soffrono per la grave penuria di prodotti alimentari.
Il 22 giugno le Nazioni Unite hanno ammonito che l’insicurezza alimentare ha raggiunto livelli senza precedenti in Sud Sudan.
È crudelmente tragico che questa guerra ha trasformato il granaio del Sud Sudan, che un anno fa poteva sfamare milioni di persone, in un campo di morte che ha costretto quasi un milione di persone alla fuga in cerca di salvezza.

Tutte le parti in conflitto dovrebbero  riprendere il controllo dei combattenti e cessare immediatamente gli attacchi contro i civili, peraltro protetti dalle leggi di guerra. I responsabili delle atrocità, in qualsiasi parte militino, devono essere sottoposti alla giustizia. Nel frattempo è fondamentale che i peacekeeper delle Nazioni Unite eseguano il loro mandato che è quello di proteggere i civili dalla carneficina in corso.

D.Bart.

mercoledì 28 giugno 2017

IL COLERA E LA GUERRA VIOLENTA CHE DEVASTANO LO YEMEN .


Una guerra violenta e dimenticata da tutti continua a devastare lo Yemen.
Oggi ha assunto le sembianze del colera. L'epidemia che si sta rapidamente diffondendo nel Paese sarebbe la peggiore della storia. I casi superano i 200mila e aumentano con un tasso di oltre 5mila al giorno: in soli due mesi sono morte più di 1300 persone, in gran parte bambini. I dati sono stati diffusi dall’UNICEF e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il colera è un’infezione che colpisce l’intestino tenue, causata da alcuni ceppi del batterio Vibrio cholerae, che si sviluppano per lo più in acqua e cibo contaminati da feci umane infette. La malattia si presenta con diarrea, spesso complicata da acidosi, crampi e vomito, in grado di causare in poco tempo una grave disidratazione. I sintomi possono comparire in un intervallo che va da poche ore a 5 giorni dal contagio. La prevenzione consiste nel lavare le mani con acqua pulita, bere acqua potabile e mangiare cib l’accesso
o cotto o bollito.

Ma in Yemen l'uso di acqua è un lusso che il popolo non può permettersi. Almeno da quando è scoppiata la guerra civile con la fine del regime di Saleh a seguito delle proteste della cosiddetta “Primavera araba”.  Rivoluzione che in Yemen è stata guidata soprattutto dagli Houthi e dal gruppo Islah, all’interno del quale agivano anche i Fratelli Musulmani yemeniti. Saleh governava il paese dal 1978, prima solo lo Yemen del Nord quindi tutto il paese, dopo l’unificazione. Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 in Yemen è iniziata una lenta e complicata transizione politica, sostenuta e guidata, dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG: Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar). Con la posizione particolarmente pressante  dell’Arabia Saudita,  Saleh ha accettato di lasciare il potere presidenziale nelle mani di Abdel Rabbo Monsour Hadi, l'elezione del quale viene riconosciuta dai paesi arabi e dall’Occidente.

Da quel momento inizia da parte degli Stati Uniti una fitta collaborazione con Hadi. I due Paesi hanno peraltro in comune due pericolosi nemici: al Qaida (che in Yemen opera nel sud) e i ribelli sciiti Houthi (nel nord del paese).
"L'esiliato" Saleh, di fatto, non ha mai lasciato davvero il potere: come ha scritto il New York Times nel febbraio del 2014, l'ex presidente yemenita non ha fatto la brutta fine toccata ad altri dittatori deposti con le Primavere Arabe. È rimasto a Sana’a, nel suo palazzo presidenziale, dove ha continuato ad esercitare il ruolo di leader del suo partito e a controllare parte dei funzionari al governo e dei militari nelle posizioni chiave dell’esercito. Una sorta di compromesso accettato anche dai sauditi, che lo hanno giustificato come necessario per evitare una guerra civile nel paese.
Evedentemente non è servito.

Hadi non è  riuscito a mantenere le promesse che alimentavano gli impulsi delle  Primavere arabe. Non ha portato a compimento  un governo che includesse anche i gruppi che erano stati oppressi o discriminati da Saleh (tra cui i ribelli Houthi e le forze separatiste del sud). Il nuovo governo yemenita anziché realizzare il cambiamento è stato costretto a riciclare politici di vecchia data, perché troppe erano le resistenze saudite che chiedevano più poteri per gli Houthi. L' intervento dei sauduti in Yemen poggia su necessità di sicurezza: oltre al lungo confine che i due paesi condividono esiste  il concretissimo problema  che un rafforzamento degli sciiti yemeniti potrebbe far proliferare la minoranza sciita - presente in alcune zone orientali dell’Arabia Saudita -  che sfida periodicamente il potere della monarchia sunnita.

Così, oggi, il più forte dei due schieramenti della guerra, è formato dai ribelli Houthi, dalle forze fedeli all’ex presidente Saleh e anche dall’Iran, che però non sembra avere una presenza diretta in Yemen.

Gli Houthi sono un gruppo sciita zaydita, una setta dello sciismo di cui fa parte circa il 35 per cento della popolazione musulmana yemenita. Zayditi e Saleh non sono sempre stati alleati, anzi: gli zayditi, che hanno governato nel nord dello Yemen per secoli, sono stati oppressi da Saleh tra il 2004 al 2010. Nel 2011, durante le proteste della cosiddetta “Primavera araba”, gli Houthi hanno protestato insieme ad altri partiti e gruppi chiedendo l’allontanamento di Saleh dal potere. E come ha scritto l’analista yemenita Iona Braig su al Jazeera America, quello di oggi tra Houthi e Saleh è un “matrimonio di convenienza”, che ha molto poche probabilità di durare nel tempo.

La rapida avanzata degli Houthi è spiegata anche dai legami del gruppo con l’Iran. Cosa che viene ufficialmente negata, mentre i fatti  dimostrano il contrario. Un funzionario iraniano ha detto a Reuters che “alcune centinaia” di combattenti delle Forze al Quds, l’unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie iraniane che si occupa di estendere l’influenza dell’Iran all’estero, hanno addestrato i combattenti Houthi sia in Yemen che in Iran. Si sa per certo che il governo iraniano ha fornito  assistenza militare e finanziaria agli Houthi.

Il flagello del colera in Yemen  è la diretta  conseguenza di due anni di conflitto.
Gli stipendi di molti lavoratori non vengono pagati da oltre 10 mesi, mancano elettricità e acqua corrente. Il sistema fognario ha smesso di funzionare ad Aprile di quest’anno. Oltre 14 milioni di persone non hanno accesso ad acqua pulita per bere o cucinare, e gli ospedali sono sovraffollati.
Malnutrizione e cattiva alimentazione hanno  indebolito la salute dei bambini rendendoli più vulnerabili alla malattia. Muoiono stremati dalla disidratazione, tra le braccia di madri disperate.

L’UNICEF, l’OMS, organizzazioni umanitarie come Medici Senza Frontiere lavorano per rallentare la diffusione dell’epidemia, distribuendo acqua potabile, servizi igienici e assistenza sanitaria di casa in casa, oltre ad informazioni su come proteggersi e su come depurare e conservare l’acqua potabile.

D.Bart.

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venerdì 23 giugno 2017

238 Arrested in Major Hollywood Pedophile Ring Bust 'Major Hollywood players' taken down for child sex crimes

The Justice Department has arrested 238 in a major new operation The Department of Justice has just conducted a series of raids across Los Angeles and arrested 238 people in connection with a Hollywood pedophilia network. According to police, the arrests included some "major Hollywood players" as well as politicians, white-collar professionals, a monk, and other high-ranking clergy members.The raids were conducted by the Los Angeles Regional Internet Crimes against Children task force, working directly with the Justice Department. Codenamed "Operation Broken Heart III", the sweeping raids targeted offenders wanted for the sexual exploitation of children, child prostitution, sex tourism and possessing and distributing child pornography, said Deputy Chief Matt Blake of the Los Angeles Police Department. Police stated that they are unable to release any names at this point, but confirmed that the arrested included some "household names" in the entertainment industry. Operation Broken Heart III is said to be part of a much larger operation that connects to national Elite pedophile rings and may extend worldwide.Among those arrested was an Australian politician who was attempting to "purchase" a 6-year-old boy.

LA Times reports: Among those arrested during sweeps in April and May were entertainers, community leaders, white-collar professionals and clergy members, said John Reynolds, acting special agent in charge for U.S. Department of Homeland Security Investigations."The incidence of child sexual exploitation has reached staggering proportions," he said at a news conference. Law enforcement officials said the arrests underscore the importance of families maintaining an open dialogue about Internet safety.     "Parents and kids need to have frank conversations about how to stay safe in cyberspace," Reynolds said. Children and teens, he said, are spending more time on the Internet and social media sites, where child predators often look for victims.The Los Angeles task force is one of 61 programs nationwide funded through the U.S. Justice Department’s Office of Juvenile Justice and Delinquency Prevention. Created in 2014, Operation Broken Heart gives law enforcement agencies and task forces an opportunity to combine resources and investigative tools to identify child sexual predators.The Los Angeles Police Department's Internet Crimes Against Children unit serves about 300 warrants each year in pursuit of child pornography suspects.In a high-rise building in Long Beach, 11 officers review an average of 350 child pornography cases a month. Investigators use forensic equipment inside a mobile crime lab named "The Beast" to scan through hard drives for any illicit images.In May, Michael Quinn, 33, traveled from Australia to Los Angeles to complete a deal to buy a 6-year-old boy for sex, according to the U.S. attorney’s office in Los Angeles.Undercover agents met Quinn on a social media networking site, where he had communicated that he wanted to “meet up with a dad who shares his young one,” according to prosecutors."Quinn explained to the undercover agent he was hoping to meet ‘other pervs’ in the U.S. and ultimately agreed to pay a human trafficker $250 to provide him with a young boy with whom he could engage in illicit sex," according to the U.S. attorney’s office in Los Angeles.Quinn went to a hotel in Los Angeles, where he planned to meet and party with three other child predators and engage in sex with boys, prosecutors said.Instead, undercover agents were waiting inside the hotel room.After Quinn handed money to an agent, who was posing as a sex trafficker, law enforcement authorities entered the room and arrested him, prosecutors said.Weeks later in Riverside, authorities arrested Kounzong Saebphang, 26, a monk, at his home in the Wat Lao Buddhist Monastery in Riverside.Authorities were investigating Saebphang since last year when they received information that he was possibly distributing child pornography, according to the Riverside County district attorney’s office.When federal investigators searched the monastery, they found at least one digital device containing child pornography in his belongings, prosecutors said.Prosecutors alleged he also distributed child pornography to another person through a social media site.

mercoledì 7 giugno 2017

La Giordania invita l'ambasciatore del Qatar a lasciare il Paese.


Anche la Giordania ha deciso di troncare, parzialmente, le relazioni con il Qatar. Ha  revocato innanzitutto la licenza alla televisione satellitare qatarina Al Jazira per trasmettere dal Paese, allineandosi così al blocco composto da Arabia Saudita, Emirati arabi uniti (Eau), Bahrain ed Egitto. Il governo di Amman ha invitato l'ambasciatore del Qatar a lasciare il Paese, ma senza interrompere le relazioni diplomatiche, come hanno  invece fatto gli altri Paesi.

"Dopo avere studiato le ragioni della crisi, il governo ha deciso di ridurre la rappresentanza diplomatica del Qatar nel Regno e revocare la licenza di Al Jazira", ha detto il portavoce dell'esecutivo, Mohammad Mumani, citato dall'agenzia Petra.

La Giordania riceve ogni anno centinaia di milioni di dollari dall'Arabia Saudita e dagli Eau a sostegno della sua fragile economia. Ma allo stesso tempo non può permettersi una rottura totale delle relazioni con il Qatar, dove lavorano circa 40.000 giordani.

Teheran sotto attacco. Kamikaze al Parlamento e al museo Komeini.


Sarebbero 7 le persone rimaste uccise nell'attacco al Parlamento di Teheran, e 4 sarebbero state prese in ostaggio, ma le notizie non sono state confermate.

Secondo i media locali il commando entrato in azione era composto da tre persone, due armate di kalashnikov e una di una bomba a mano. Secondo l'agenzia di stampa Fars, un solo assalitore avrebbe sparato diverse volte per poi fuggire.

L'agenzia  Tasnim parla di uno scontro a fuoco che sarebbe avvenuto in un corridoio del Majlis; una delle pallottole avrebbe raggiunto l'area riservata ai giornalisti. Alcuni testimoni dicono che dal Parlamento si sentono ancora degli spari. Tutte le strade del centro di Teheran che portano al palazzo sono state chiuse.

Altre persone sono invece rimaste ferite in una sparatoria avvenuta al mausoleo dedicato all'ayatollah Ruhollah Khomeini, nella zona sud di Teheran, dove sarebbe entrato in azione anche un kamikaze. Lo ripostarno l'agenzia di stampa Fars e l'emittente Press, secondo le quali un membro del commando che ha assaltato il mausoleo si sarebbe fatto saltare in aria.

Le forze di sicurezza iraniane avrebbero arrestato uno dei membri del commando che ha assaltato il mausoleo.

lunedì 5 giugno 2017

Terrorismo: Bahrain, Arabia Saudita, Egitto recidono i rapporti diplomatici con il Qatar.

Le principali nazioni della Lega Araba, tra cui l'Arabia Saudita, l'Egitto e gli Emirati Arabi Uniti hanno reciso i legami diplomatici con il Qatar. La decisione segue a ruota quella del Bahrain che primo fra tutti ha annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con Doha, accusata di sostenere i gruppi terroristici e di interferenze negli affari interni di altri Paesi. L'organo di informazione statale del Bahrain avverte che i cittadini del Qatar hanno 14 giorni di tempo per lasciare il paese. Interrotti anche tutti i collegamenti marittimi ed aerei.
Citando la “tutela della sicurezza nazionale”, Riyadh ha siglato il medesimo provvedimento chiudendo tutti i contatti di terra, mare e aria con Doha.  L'agenzia di stato saudita SPA ha scritto in un comunicato che il Qatar “abbraccia l'attività terroristica multipla e i gruppi settari che portano scompiglio nella regione, tra cui i Fratelli Musulmani, ISIS e Al-Qaeda, e promuove costantemente il messaggio e gli schemi di questi gruppi attraverso i loro stessi mezzi .”
La coalizione guidata dall' Arabia ha annunciato inoltre che la partecipazione del Qatar nell' operazione militare congiunta in Yemen è stata annullata.
Il passo successivo di questa pericolosa guerra diplomatica lo compie
L'Egitto. Attraverso l'agenzia di stampa Sputnik, anche il Cairo fa sapere che sta tagliando i rapporti con Doha, chiudendo tutti i suoi porti e lo spazio aereo alle navi e agli aerei del Qatar.
“Il governo della Repubblica araba d'Egitto ha deciso di rompere le relazioni diplomatiche con il Qatar a causa della continua ostilità delle autorità del Qatar verso l'Egitto,” recita la dichiarazione del Cairo che accusa inoltre Doha di sostenere organizzazioni terroristiche, tra cui i Fratelli Musulmani.
D. Bart

sabato 3 giugno 2017

Kabul: nuova esplosione. 7 morti e un centinaio di feriti.


È accaduto ancora,  nonostante in tutta Kabul la caccia agli attentatori suicidi sia inesorabilmente serrata. I morti sono sette e oltre 100 i feriti di questo nuovo attacco sferrato durante il funerale di una delle cinque persone uccise nell'attentato di venerdì.
L'ultima violenza avviene in una Kabul interamente bloccata, con la rabbia popolare contro il governo che sale di ora in ora.
I funzionari avevano raccomandato ai cittadini di evitare dimostrazioni, dal momento che i militanti sono sempre pronti all'attacco. Nemmeno una cerimonia fenebre  ferma la ferocia del terrorismo.
Punti di controllo erano stati istituiti nel centro di Kabul, mentre veicoli blindati pattugliavano le strade. Purtroppo i tre attentatori suicidi erano confusi tra famigliari e amici del defunto, figlio di un senatore. Affranto, l'uomo ha chiesto un indagine rapida per scoprire come si siano svolti i fatti e le falle nel servizio di sicurezza. Nessun, al momento, ha ricandidatura l'azione. I talebani stessi negano il proprio coinvolgimento.

Il presidente Ashraf Ghani ha scritto su Twitter: "Il paese è sotto attacco. Dobbiamo essere forti e uniti.".
Il ministro della salute, Rahmatullah Begana, presente al funerale, ha detto che la prima esplosione si è sentita all' inizio della cerimonia.
"Pochi minuti dopo, è avvenuta la seconda. Ho visto tante persone a terra, coperte di sangue", ha raccontato. Un altro testimone ha riferito all'agenzia  AFP di aver visto  "corpi che volavano a pezzi".
Kabul conta ora tre incidenti mortali in quattro giorni. La gente non ha nemmeno cominciato ad elaborare le conseguenze del grande attacco suicida che nei giorni scorsi ha provocato la morte di 90 persona
La ribellione verso il governo per non aver saputo prevenire questo attacco aveva portato, infatti, alle proteste il venerdì. Con le conseguenze che sappiamo: 5 vittime.  Ed ora è proprio il funerale di una di queste è stato preso di mira, presumibilmente da un gruppo militante.
Parecchi politici di alto profilo erano presenti al funerale di oggi. Il fatto che anche loro non siano immuni alla crescente violenza indica quanto sia alto il livello della minaccia in città.
Kabul una volta era considerata la parte più sicura dell'Afghanistan. È diventata la più  pericolosa.
Dell'attentato di Mercoledì con i 90 morti nel quartiere diplomatico della città, i
funzionari dei servizi segreti afgani hanno accusato la rete Haqqani, un affiliato dei talebani con presunti legami con il Pakistan.
Più di un terzo dell'Afghanistan è attualmente fuori dal controllo governativo.
Gli Stati Uniti hanno sul territorio circa 8.400 soldati,  altri 5.000 presenti nel Paese appartengono ad  alleati della NATO.
D. Bart.

mercoledì 24 maggio 2017

Le Monde Afrique - En Egypte, l'avocat Khaled Ali arrêté




Un ancien candidat à la présidentielle égyptienne et avocat des droits de l'Homme qui a défié le gouvernement pour avoir accepté la rétrocession de deux îles à l'Arabie saoudite, a été arrêté mardi 23 mai, selon un responsable judiciaire. Suspecté d'avoir créé un parti politique non-enregistré, Khaled Ali a été convoqué par le parquet. Ce dernier a ordonné sa détention pour 24 heures, a indiqué le responsable judiciaire.

Ses ennuis avec la justice surviennent au moment où plusieurs groupes d'opposition se plaignent d'une répression avant la prochaine élection présidentielle prévue en 2018 en Egypte, qui devrait être dominée par le président sortant Abdel Fattah Al-Sissi.

M. Ali a été le principal avocat à soutenir une procédure judiciaire contre le gouvernement pour avoir accepté la rétrocession des îles de Tiran et Sanafir en mer rouge à l'Arabie saoudite en avril 2016. L'accord conclu entre Ryad et Le Caire a soulevé une vague de protestations en Egypte, où toute forme de manifestation est interdite. M. Ali avait également été candidat à l'élection présidentielle de 2012 au cours de laquelle le président islamiste Mohamed Morsi avait été élu.

mercoledì 26 aprile 2017

Negato il finanziamento per il muro con il Messico, ma Trump insiste: Si farà


    
I finanziamenti per la costruzione del muro tra gli Stati Uniti e il Messico non saranno inseriti nella manovra di aggiustamento di bilancio che deve essere approvata entro la mezzanotte di venerdì. Il passo indietro è arrivato dopo che i Democratici  avevano minacciato di bloccare il disegno di legge se il denaro fosse stato destinato alla recinzione.

La consulente del presidente Usa, Kellyanne Conway, ha confermato a Fox News che i fondi per il muro saranno tenuti fuori dal budget che deve essere approvato questa settimana, ma rimane una "priorità molto importante".
E Donald Trump ha precisato su Twitter che il progetto, fulcro della sua campagna elettorale, non si ferma: "Non fatevi dire dai media fasulli che ho cambiato idea sul muro". "Sarà costruito e fermerà droga e traffico di esseri umani", ha twittato il presidente americano.

Il progetto del muro anti-immigrati tra Stati Uniti e Messico "non solo è una cattiva idea", ma un'"azione ostile" che è "improbabile" raggiunga l'obiettivo di "fermare il flusso di migranti e di merci illegali negli Usa", ha affermato per contro il ministro degli Esteri messicano Luis Videgaray durante un incontro con i parlamentari, aggiungendo che il Paese non darà un centesimo per la  costruzione della barriera
Il ministro ha inoltre definito i piani per la chiusura della frontiera "uno spreco assoluto di denaro" e che il Messico avrebbe intrapreso azioni legali se i suoi confini verranno violati dalla recinzione. "Il muro non fa parte di una discussione bilaterale né dovrebbe esserlo", ha detto Videgaray. "In nessun caso - ha ridato - contribuiremo economicamente ad un'azione di questo tipo".

L'insistenza di Trump sulla costruzione di un muro di confine ha complicato le relazioni tra Messico e Stati Uniti, che erano diventate strette e cooperative in materia di scambi, commercio e sicurezza dopo decenni di indifferenza e reciproca diffidenza. Ora invece, ha precisato Videgaray, "se i negoziati su temi quali immigrazione, confini, commercio, non saranno soddisfacenti per gli interessi del Messico, il governo messicano valuterà una riduzione della cooperazione esistente, sopratutto nelle aree di sicurezza". Zone di estrema importanza, peraltro, dove operano le forze armate che supportano l'agenzia nazionale per l'immigrazione e la polizia federale.

D.Bart.

    

sabato 22 aprile 2017

NELLA TURCHIA DI ERDOGAN CHE UCCIDE LA LIBERTÀ DI STAMPA.

Il record di Paese con il più alto numero di giornalisti incarcerati lo batte la Turchia di Erdogan. Con 153 reporter in carcere, ad Ankara soggiorna forzatamente la metà di tutti i giornalisti arrestati nel mondo. Kurdi, turchi, scrittori, commentatori, fotografi, analisti: tutti rigorosamente  stranieri.

L'italiano Gabriele Del Grande è solo l’ultimo incarcerato in un paese che – a seguito del golpe del 15 luglio scorso – tiene sotto il controllo governativo ogni canale d'informazione.
Deniz Yucel, reporter del quotidiano Die Welt, cittadino turco e tedesco, è in prigione- e in isolamento- da circa due mesi. Accusato di di propaganda a favore del Pkk e incitamento alla violenza,
rischia 10 anni e mezzo di carcere. Per sottrarsi alla morsa del dittatore, la settimana scorsa Yucel ha sposato la fidanzata nella prigione di Silivri; ma a tempo di record il presidente Erdogan ha comunicato a Berlino che il giornalista non sarebbe stato estradato in Germania, come invece aveva richiesto il  Ministro degli Esteri tedesco che ha potuto fare visita a Yucel solo sette settimane dopo l’arresto.

«È un agente terrorista – ha detto Erdogan – Faremo il necessario, nell’ambito della legge, contro chi agisce come spia e minaccia il nostro paese da Qandil». Ovvero, dalle montagne irachene dove gli uomini del Pkk si sono ritirati quattro anni fa quando iniziò il breve processo di pace.
Il  caso di Yucel non è soltanto ingiusto dal punto di vista umano, civile e democratico. È anche la dimostrazione di quanto poco importi ad Ankara  dell’Unione Europea. Oggi Erdogan  protegge la Turchia come si fa con una terra sotto assedio: i nemici storici - esterni ed interni- sono sempre loro, i kurdi, decisi ed impegnati nell'indebolimento della nazione turca  per impedirgli di riappropriarsi del suo ruolo primario in Medio Oriente. Erdogan lo ha spiegato, ripetuto e urlato in ogni occasione.

L' ineluttabilità dell'uomo forte alla guida di uno Stato in pericolo è dunque il presupposto per sopprimere sul nascere  qualsiasi sospetto tentativo di indebolimento. Ed è anche il principio su cui poggiano le tesi dei reati contestati ai giornalisti arrestati e imprigionati.

Soffocare, ridurre al silenzio le poche voci critiche rimaste, richiede perciò il ricorso all'unico strumento per ora possibile: la galera. Il passo successivo contemplerebbe persino la sopressione fisica, che abbiamo già visto in Egitto con il caso Reggeni. Tanta galera, dunque: una settimana fa il procuratore di Istanbul ha chiesto tre ergastoli a testa per 16 dipendenti del gruppo editoriale Zaman. Tra loro, la  commentatrice Nazli Ilicak, il giornalista e scrittore Ahmet Altan e il professore di economia  Mehmet Altan. Tre nomi altisonanti dell'informazione turca, accusati di voler rovesciare l’ordine costituito, il governo e il parlamento tramite il sostegno alla rete dell’imam Gülen, considerato la mente dietro la fallita insurrezione di luglio.

La stessa procura ha chiesto pene da 15 a 43 anni per 19 giornalisti del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, un giornale che oggi non esiste più. Scandalosi anche i casi dell’ex direttore Dundar e il caporedattore Gul, condannati in primo grado a cinque anni per il reportage che svelava i legami dei servizi segreti turchi con gruppi islamisti in Siria. Ora finisce sotto processo anche il resto della redazione: il direttore Sabuncu, lo scrittore Sik, il vignettista Kart e l’editore Atalay.
19 giornalisti,  tutti accusati contemporaneamente di sostegno all’islamista nazionalista Gülen e di appoggio al movimento di liberazione kurdo Pkk. Due soggetti lontanissimi tra loro, ideologicamente  opposti, ma infilati nel medesimo calderone del terrorismo contro lo Stato. La procura parla di «tattiche di guerra asimmetrica, intense operazioni di percezione che hanno preso di mira il governo e il presidente».

Le condanne emesse fino ad ora non poggiano nemmeno su una sola prova valida da sventolare all'opinione pubblica. Eppure la scure  che abbatte  la libertà di stampa non solleva la minima critica da parte di Bruxelles, impegnata com'è a stringere accordi miliardari anti-rifugiati con lo Stato turco.

In conclusione, con quasi 200 siti, agenzie, quotidiani, tv e radio chiusi per ordine governativo, e 153 reporter in carcere, il lavoro dei media in Turchia è morto e sepolto. La parola di Erdogan domina - o sostituisce- l'informazione.
D. Bart.

giovedì 6 aprile 2017

TRUMP RISPONDE ALLA STRAGE DI IBLID: 59 MISSILI TOMAHAWK CONTRO UNA BASE AEREA SIRIANA.


Dopo la strage provocata dall'uso di armi chimiche ad Iblid, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di sferrare un attacco militare contro Bashar al-Assad.
Il Presidente della Siria è infatti accusato di aver usato i gas tossici che nei giorni scorsi hanno provocato la morte per soffocamento di numerosi civili. Si parla attualmente di 86 morti tra i quali 30 bambini e 20 donne. Il bilancio, però, è destinato ad aumentare perché i feriti sono centinaia, alcuni dei quali in gravi condizioni. La zona colpita è situata in una provincia controllata per intero da gruppi armati anti Assad e dove è molto forte la presenza di Hayat Tahrir al Sham, una fazione considerata l’erede di Jabhat al Nusra, divisione siriana di al Qaida.
Le versioni sull'accaduto sono diverse, variamente sostenute dal governo siriano, dalla Russia o da cronisti internazionali. Secondo alcuni, l'esercito siriano avrebbe bombardato un deposito di armi in dotazione ai ribelli, facendo esplodere delle armi chimiche. Secondo altri, lo stesso Assad sarebbe responsabile diretto del massacro.

Quindi il dilemma:armi chimiche usate da Assad, oppure armi chimiche dei ribelli esplose durante un raid del governo siriano?

Trump, dichiaratamente e oggettivamente decisionista, detto dilemma lo ha risolto  con un bombardamento "una tantum".

Navi americane di stanza nel Mediterraneo hanno lanciato 59 missili  'Tomahawk' contro la base militare siriana di Shayrat.
La tv di Stato siriana parla di "aggressione" Usa e di "perdite" mentre il Pentagono di "risposta proporzionata". Le vittime dell'attacco americano sarebbero 5: tre soldati e due civili. Lo ha detto Talal Barazi, il governatore della provincia di Homs, aggiungendo che altre 7 persone sono rimaste ferite.

"Nessun bimbo deve soffrire in quel modo, i paesi civilizzati mettano fine al massacro" ha detto il presidente americano, secondo il quale i raid missilistici sono nel "vitale interesse della sicurezza nazionale".

Sull'esempio di altre grandi raffinate "teste", Trump ha deciso così di esportare un po' di democrazia. Con i missili, ovviamente. Perché quei bambini "tanto belli", che il presidente non vuole in casa sua, conviene bombardare a casa loro.

La logica dei folli fa mai una grinza, è perfetta.

Israele: noi al fianco di Trump.
 
"Israele supporta pienamente la decisone del presidente Trump", afferma un comunicato dell'ufficio del premier Benjamin Netanyahu.

Diversa, ovviamente, la posizione di Mosca che parla di "azioni sconsiderate"

- Il Comitato di Difesa della Duma di Stato russa afferma che l'attacco missilistico degli Stati Uniti contro la Siria potrebbe peggiorare i rapporti tra Mosca e Washington, e  portare, inoltre, ad un ampliamento dei conflitti armati in Medio Oriente.  "Queste sono azioni irresponsabili, sconsiderate", dice una nota diffusa da Mosca, che chiede con urgenza che si riunisca il Consiglio di sicurezza dell'Onu.

D.Bart.