sabato 22 aprile 2017

NELLA TURCHIA DI ERDOGAN CHE UCCIDE LA LIBERTÀ DI STAMPA.

Il record di Paese con il più alto numero di giornalisti incarcerati lo batte la Turchia di Erdogan. Con 153 reporter in carcere, ad Ankara soggiorna forzatamente la metà di tutti i giornalisti arrestati nel mondo. Kurdi, turchi, scrittori, commentatori, fotografi, analisti: tutti rigorosamente  stranieri.

L'italiano Gabriele Del Grande è solo l’ultimo incarcerato in un paese che – a seguito del golpe del 15 luglio scorso – tiene sotto il controllo governativo ogni canale d'informazione.
Deniz Yucel, reporter del quotidiano Die Welt, cittadino turco e tedesco, è in prigione- e in isolamento- da circa due mesi. Accusato di di propaganda a favore del Pkk e incitamento alla violenza,
rischia 10 anni e mezzo di carcere. Per sottrarsi alla morsa del dittatore, la settimana scorsa Yucel ha sposato la fidanzata nella prigione di Silivri; ma a tempo di record il presidente Erdogan ha comunicato a Berlino che il giornalista non sarebbe stato estradato in Germania, come invece aveva richiesto il  Ministro degli Esteri tedesco che ha potuto fare visita a Yucel solo sette settimane dopo l’arresto.

«È un agente terrorista – ha detto Erdogan – Faremo il necessario, nell’ambito della legge, contro chi agisce come spia e minaccia il nostro paese da Qandil». Ovvero, dalle montagne irachene dove gli uomini del Pkk si sono ritirati quattro anni fa quando iniziò il breve processo di pace.
Il  caso di Yucel non è soltanto ingiusto dal punto di vista umano, civile e democratico. È anche la dimostrazione di quanto poco importi ad Ankara  dell’Unione Europea. Oggi Erdogan  protegge la Turchia come si fa con una terra sotto assedio: i nemici storici - esterni ed interni- sono sempre loro, i kurdi, decisi ed impegnati nell'indebolimento della nazione turca  per impedirgli di riappropriarsi del suo ruolo primario in Medio Oriente. Erdogan lo ha spiegato, ripetuto e urlato in ogni occasione.

L' ineluttabilità dell'uomo forte alla guida di uno Stato in pericolo è dunque il presupposto per sopprimere sul nascere  qualsiasi sospetto tentativo di indebolimento. Ed è anche il principio su cui poggiano le tesi dei reati contestati ai giornalisti arrestati e imprigionati.

Soffocare, ridurre al silenzio le poche voci critiche rimaste, richiede perciò il ricorso all'unico strumento per ora possibile: la galera. Il passo successivo contemplerebbe persino la sopressione fisica, che abbiamo già visto in Egitto con il caso Reggeni. Tanta galera, dunque: una settimana fa il procuratore di Istanbul ha chiesto tre ergastoli a testa per 16 dipendenti del gruppo editoriale Zaman. Tra loro, la  commentatrice Nazli Ilicak, il giornalista e scrittore Ahmet Altan e il professore di economia  Mehmet Altan. Tre nomi altisonanti dell'informazione turca, accusati di voler rovesciare l’ordine costituito, il governo e il parlamento tramite il sostegno alla rete dell’imam Gülen, considerato la mente dietro la fallita insurrezione di luglio.

La stessa procura ha chiesto pene da 15 a 43 anni per 19 giornalisti del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, un giornale che oggi non esiste più. Scandalosi anche i casi dell’ex direttore Dundar e il caporedattore Gul, condannati in primo grado a cinque anni per il reportage che svelava i legami dei servizi segreti turchi con gruppi islamisti in Siria. Ora finisce sotto processo anche il resto della redazione: il direttore Sabuncu, lo scrittore Sik, il vignettista Kart e l’editore Atalay.
19 giornalisti,  tutti accusati contemporaneamente di sostegno all’islamista nazionalista Gülen e di appoggio al movimento di liberazione kurdo Pkk. Due soggetti lontanissimi tra loro, ideologicamente  opposti, ma infilati nel medesimo calderone del terrorismo contro lo Stato. La procura parla di «tattiche di guerra asimmetrica, intense operazioni di percezione che hanno preso di mira il governo e il presidente».

Le condanne emesse fino ad ora non poggiano nemmeno su una sola prova valida da sventolare all'opinione pubblica. Eppure la scure  che abbatte  la libertà di stampa non solleva la minima critica da parte di Bruxelles, impegnata com'è a stringere accordi miliardari anti-rifugiati con lo Stato turco.

In conclusione, con quasi 200 siti, agenzie, quotidiani, tv e radio chiusi per ordine governativo, e 153 reporter in carcere, il lavoro dei media in Turchia è morto e sepolto. La parola di Erdogan domina - o sostituisce- l'informazione.
D. Bart.

Nessun commento:

Posta un commento

Se volete lasciate un commento...