mercoledì 18 ottobre 2017

SU RAQQA LIBERA SVENTOLANO LE BANDIERE DEI VINCITORI, MA I DISSIDI TRA COMUNITÀ DIVERSE MINACCIANO ANCORA UNA PACE VERA.


Le bandiere delle Forze democratiche siriane (Fds) che sventolano nello stadio di Raqqa, capitale del Califfato sconfitto, sono soltanto un'illusione di pace vera. Sulle rovine della città straziata da anni di feroce occupazione jihadista e dai furiosi bombardamenti della coalizione anti-Daesh grava ancora l'ombra minacciosa di nuovi conflitti tra comunità portatrici di convinzioni in forte contrasto fra loro. Le fotografie con i peshmerga curdi che sventolano i loro gialli vessilli somigliano a quelle di altre liberazioni, anche europee, festeggiate dopo la sconfitta degli invasori. Simili sono le distruzioni delle case e le sofferenze della popolazione civile, con migliaia di morti, feriti e un numero altissimo di profughi.
Ma le condizioni del dopo-guerra, a Raqqa, sono diverse e più difficili. Nell'Europa del 1945, ad esempio, caduto il Terzo Reich, si poté ricostruire una nuova Germania, sia pure divisa, che ripudiava gli orrori del nazismo e che è tornata al centro del continente europeo. Raqqa, ora che sono state sgominate le milizie jihadiste e che i vertici del Califfato sono o morti o scomparsi in qualche tana del deserto, ritornerà solo a essere la periferia di un Paese lacerato e diviso come è la Siria di oggi.
Resta il fatto positivo che, con la caduta di Raqqa, tramonta definitivamente il sogno di uno stato islamico, che aveva galvanizzato e fatto sognare migliaia di musulmani innamorati della malvagia radicalità del sunnismo fondamentalista. Purtroppo la sconfitta del Califfo non comporta l'automatica scomparsa dell’ideale del jihad globale. Anzi, proprio il collasso territoriale di Daesh spinge molti dei cosiddetti foreign fighters, ossia i volontari accorsi da tutto il mondo a combattere per il califfo, a cercare di tornare nei Paesi d’origine. Con il rischio concreto di un aumento degli attacchi terroristici indiscriminati, a bassa intensità, come quelli subiti più o meno recentemente da  Europa e Nordafrica.

In Medio Oriente, nulla è stato  programmato per il "dopo-guerra". Vinta la battaglia, sbaragliato il Califfato, i fautori della riconquista -  milizie a maggioranza curda, fortemente sostenute dagli Usa-  non hanno messo a punto un programma.
Raqqa non è mai stata e non può essere una città "curda". E allora, con chi tratteranno le milizie? Con il regime di Assad, militarmente più forte, oppure con le forze arabe di opposizione, frammentate e deboli?
Combattere il Daesh e i suoi militanti ha permesso in questi anni ad attori diversi e fortemente contrapposti di agire uniti e affiancati. Ma ora che l’emergenza è finita, le vecchie divisioni riemergeranno, riaprendo inevitabilmente nuovi fronti di battaglia. Lo sanno bene gli stessi curdi, che negli ultimi anni avevano "occupato" territori contesi con gli arabi in Iraq. Proprio in questi giorni, in seguito allo sciagurato referendum per l’indipendenza lanciato dal governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg), sono esplose le tensioni con Baghdad. Le forze irachene hanno mostrato i muscoli, obbligando i peshmerga a ritirarsi precipitosamente dalla città di Kirkuk, da sempre contesa fra le parti, e anche dal Sinjar, un distretto occupato dai curdi durante la guerra con il Daesh. Con gli iracheni si sono schierati l’Iran e la Turchia, ostili a ogni idea di Kurdistan indipendente, mentre Washington è rimasta palesemente spiazzata dalle tensioni, dato che sostiene entrambe le fazioni.

L’imperizia – o le ambizioni eccessive – del governo curdo di Erbil sono certo una causa di questo nuovo fronte di crisi. Ma, a un livello più profondo, ciò che manca nella regione è la capacità di percepire l’insicurezza e il disagio delle altre comunità etnico-religiose. L’indifferenza verso le ragioni dell’altro, allorché non collimino con le proprie, è politica quotidiana.
In Iraq, come in Siria e ovunque in Medio Oriente, si possono vincere guerre, ma sconfiggere il terrorismo non è un obiettivo militare, bensì politico, sociale, economico e culturale. La pace non è precisamente assenza di guerra; significa rimuovere le cause di ostilità fra comunità che vivono sullo stesso territorio. Una vittoria rischia di essere vana se si limita allo sventolio di una bandiera sulle rovine di una scuola, di un ospedale o di edifici civili. La vittoria vera, garante di pace è soprattutto saper ricostruire ciò che è stato distrutto rendendolo disponibile a tutti: uomini, donne, bambini, giovani e vecchi a prescindere da religione, lingua o razza.

D.Bart.

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