domenica 13 ottobre 2019

SIRIA. Assalto jihadista alle carceri. Chiesta dai Curdi una 'no-fly zone'. In galera chi condanna sui social l’attacco di Ankara.

SIRIA. Assalto jihadista alle carceri per liberare militanti Isis. I curdi chiedono una 'no-fly zone'. In galera chi condanna sui social l’attacco di Ankara in Siria



Il comandate delle Forze democratiche siriane (Fds), Redur Khalil, chiede alla comunità internazionale l'istituzione di una "no-fly zone" sul nord della #Siria affinché i curdi, attaccati da #Erdogan, possano “combattere una guerra con eguali opportunità contro la Turchia". Lo ha fatto parlando da una località segreta, attraverso il canale curdo Rudaw. Il comandante ha anche precisato che la difesa delle prigioni in cui si trovano i detenuti dell'Isis non sarà possibile, dal momento che i continui attacchi da parte della Turchia impongono, innanzitutto, la difesa del territorio.

Poche ora fa, i combattenti curdi della YPG impegnati sulle strade di Ras al Ayn, hanno riconquistato la maggior parte della città. In sostanza, tutte le zone perse ieri nell'offensiva dei miliziani filo turchi. È impossibile sapere con certezza quante vittime abbia fatto in pochi giorni, sia tra i civili che fra le forze combattenti, quella che Erdogan ha chiamato con sfrontatezza : operazione "Fonte di pace".
Confrontando voci concordanti possiamo parlare di 40 civili siriani negli ultimi tre giorni, mentre si calcola che siano già 130 mila gli sfollati fuggiti dai territori del Rojava attaccato da turchi.

È davvero difficile, in tali circostanze, presidiare anche i luoghi di detenzione di 12 mila militanti Isis, in particolare, le 20 prigioni dove sono tenuti i 1500 jihadisti più pericolosi. “Ci sentiamo traditi e dobbiamo combattere su due fronti, uno contro l’Isis e l’altro con la Turchia. Mantenere la sicurezza nelle prigioni dell’Isis non è più la nostra priorità. Il mondo si può occupare del problema Isis se davvero lo vuole».

Nel frattempo, dopo i cinque giorni di attacchi a terra sferrati della Turchia e dagli alleati arabi, lo Stato islamico si risolleva e insorge assaltando le prigioni per liberare i combattenti. In previsione c’è la riorganizzazione di un’armata in grado di riprendere il dominio del territorio.

Accusatorio nella sua essenzialità il commento del generale Mazloum Kobani: «Gli Usa ci hanno venduti, lasciati soli, al massacro». 


Havrin Khalaf

Simbolo tangibile di una strage feroce, annunciata dalla decisione di Trump che ritira le truppe Usa, arriva la notizia della morte di Havrin Khalaf, segretaria generale del partito per il Futuro della Siria. La donna è rimasta uccisa con un’autobomba esplosa a Qamishli, la città curda finita sia sotto il fuoco turco sia sotto il tiro dell'Isis, che ha rivendicato l'attentato. 
Havrin Khalaf guidava un Forum tribale delle donne e si batteva per una transizione democratica di una Siria rispettosa verso le minoranze e più distante dall'impostazione baathista. Sognava una Siria "multi identitaria", non violenta, pacifica nella risoluzione delle controversie, favorevole alll'eguaglianza tra uomini e donne. Una Siria rispettosa verso le risoluzioni delle nazioni Unite, "in particolare la risoluzione 2254, secondo cui tutte le fazioni del popolo siriano dovrebbero essere rappresentate nel processo politico, compresa la stesura di una nuova costituzione".

Le procure di Istambul contro la libertà di pensiero e d’espressione.

Sono 125, al momento, le persone arrestate in varie città della Turchia, colpevoli di aver condiviso sui propri account social post critici o contrari all’intervento sferrato da Ankara nel nord est della Siria. A diffondere notizie, aggiornando i numeri in diretta, ci pensa il ministro degli Interni, Suleyman Soylu, in persona. Gli ultimi 4 ordini di arresto sono stati emessi dalla procura di Istanbul.

Gli arrestati sono accusati aver diffuso post contenenti notizie false riguardanti la morte di bambini e civili, di aver utilizzato i propri account social per istigare odio nei confronti del governo, dello stato e delle forze di sicurezza turche, di aver fatto propaganda a favore dell'organizzazione terroristica curda Ypg, indicata da Ankara quale vero obiettivo dell'intervento militare turco.

Lo scorso 10 ottobre, anche i due segretari del partito filo curdo Hdp, Sezai Temelli e Pervin Buldan, oltre ad altri 3 parlamentari dello stesso partito, sono finiti nel registro degli indagati della procura di Ankara, con l'accusa di "propaganda a favore di organizzazione terroristica", a causa di post condivisi sui propri account social.

Sospensione della vendita armi all Turchia.

L’appello delle forze
democratiche siriane rivolto alla comunità internazionale comincia a dare qualche risultato. Dopo l'Olanda, anche la Germania e la Francia hanno sospeso le esportazioni di armi alla Turchia.
Un gesto importante alla vigilia del Consiglio Affari Esteri dell'Ue che dovrà decidere le sanzioni contro il Paese di Erdogan.
“Vista l'offensiva militare nel nord est della Siria - ha detto Il ministro degli Esteri, Heiko Maas - il governo non rilascerà altre nuove licenze per tutti gli equipaggiamenti militari che potrebbero essere utilizzati in Siria". Nel 2018 le esportazioni tedesche di armi in Turchia ammontavano a 243 milioni di euro, un terzo del totale delle esportazioni di armi.

Infine, Lega Araba ha chiesto alle Nazioni Unite di adottare misure per fermare l'offensiva militare e ritirare "immediatamente" le forze turche dalla Siria.

D.Bart.

lunedì 7 ottobre 2019

Trump avvalla l'invasione turca del nord della #Siria e abbandona i curdi che hanno sconfitto l'Isis a Raqqa


Il presidente degli Stati Uniti ha deciso di ritirare i mille soldati americani dalla Siria Settentrionale,
abbandonando così gli alleati curdi che,in prima linea nella lotta pluriennale contro l'ISIS, hanno ricoperto un ruolo decisivo nella riconquista di Raqqa e dei territori in mano al gruppo “Stato islamico”.(IS)
I combattenti curdi hanno ormai ripiegato nelle zone del nordest della Siria, protetti dai militari statunitensi, ma sempre sotto la pressione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che minaccia spesso un attacco contro le forze curde siriane legate al Pkk, il Partito dei lavoratori curdi di Turchia, suo nemico giurato.
Fino alla mattina del 19 dicembre, i mezzi d’informazione vicini a Erdoğan affermavano che si tratterebbe di un’offensiva “vitale” per la sicurezza della Turchia, criticando per l’ennesima volta il sostegno accordato da Washington ai curdi. Il ritiro statunitense è dunque un trionfo per Erdoğan e rischia di spingere i combattenti curdi tra le braccia di Bashar al Assad, con cui i ponti non sono mai stati completamente tagliati.
La decisione suscita sconcerto tra gli alti gradi statunitensi e provoca
l’imbarazzo della Francia, che mantiene circa duecento uomini delle sue forze speciali nella zona anche allo scopo di proteggere i curdi. Con il ritiro degli Stati Uniti, Parigi dovrà affrontare una situazione complicata

Da tempo Trump ha annunciato anche la sua controverità, e cioè che il gruppo Stato islamico è stato sconfitto, quindi verrebbe meno l’unico motivo della presenza dei soldati statunitensi nel paese.
Come d’abitudine, il Presidente ha annunciato attraverso Twitter la sua inversione di rotta, una mossa che piace alla base elettorale isolazionista e che presenta tutti i vantaggi di un disimpegno dall’ennesimo conflitto in Medio Oriente.

Effettivamente lo Stato Islamico ha perso il grosso dei territori che un tempo controllava in Iraq e in Siria, ma non è stato definitivamente debellato. La posizione di Trump ricorda il “missione compiuta” di George Bush in Iraq, seguito da molti anni di guerra.




Il disimpegno di Washington potrebbe scatenare il caos nella regione. Donald Trump non ha ascoltato i suoi consiglieri che non volevano privare gli Stati Uniti di un ruolo chiave nella definizione del dopoguerra in Siria.

Ritirandosi prima che sia trovata una soluzione politica, gli Stati Uniti lasciano alla Russia e all’Iran la possibilità di godere dei frutti del loro intervento decisivo a sostegno di Assad. Teheran e Mosca hanno dato il via libera alla Turchia, che ora potrà allargare la sua zona di sicurezza nel nord della Siria, a spese dei curdi.
Questa evoluzione sconvolge i sostenitori di una politica repubblicana classica a Washington, che continuano a ragionare in funzione di uno scacchiere politico-militare mondiale segnato dalla rivalità delle potenze. Evidentemente tutto questo non interessa affatto a Trump il quale, di fatto, da alla Turchia il via libera per massacrare 2 milioni curdi, fino a ieri alleati degli Stati Uniti. Gli stessi curdi che hanno combattuto a fianco degli americani contro l'ISIS.
Ritirando le forze statunitensi, Trump sta consentendo un altro massacro dei curdi. In questo senso, dalll’America, lo sfogo sui social è pressoché unanime. Eccone degli esempi da Twitter:

-One of the most shameful episodes of American history is about to take place: the genocide of our staunch former allies, the Kurds, in the fight against ISIS.
(Sta per aver luogo uno degli episodi più vergognosi della storia americana: il genocidio dei nostri ex fedeli ex alleati, i curdi, nella lotta contro l'ISIS.)

-Trump has destroyed our trust in the world. How can we allow kurds to get massacred after they fought ISIS for us. Trump is a dangerous disgrace and a national security nightmare. America will pay heavily in the future for these actions he has taken overseas. No one will trust us
(Trump ha distrutto la nostra fiducia nel mondo. Come possiamo permettere ai kurdi di essere massacrati dopo che hanno combattuto l'ISIS per noi. Trump è una disgrazia pericolosa e un incubo per la sicurezza nazionale. L'America pagherà molto in futuro per queste azioni che ha intrapreso all'estero. Nessuno si fiderà di noi)

D.Bart

domenica 6 ottobre 2019

Khalifa Haftar Salvatore della patria?

È probabile che alla fine Khalifa Haftar si prenderà la Libia, ma il suo obiettivo è entrare nella capitale come salvatore della patria contando sul supporto di una popolazione stanca del caos e su capi miliziani con la pancia troppo piena per voler combattere.
Non si tratta di uno scontro ideologico: le milizie raramente sono portatrici di una visione ideologica e in questo momento, peraltro, lo sono forse maggiormente alcune milizie salafite “makdalis” che operano all’interno del presunto esercito nazionale di Haftar (LNA) e che sono seguaci di un predicatore saudita. In generale prevalgono certamente interessi opportunistici ed è probabilmente ciò su cui punta Haftar: esercitare un potere di deterrenza tale da attirare a sé, o almeno nel campo della neutralità, diversi gruppi armati della capitale.
Il Generale gode del supporto economico emiratino, e probabilmente saudita, e di quello militare russo, che è presente in Libia con diversi mercenari del gruppo Wagner, ma anche sul supporto politico e probabilmente di intelligence dei francesi.
Haftar sta agendo nel suo stile: si dice pronto a trattare, si siede ai tavoli dei negoziati a stringere le mani ma poi agisce sul terreno mettendo la comunità internazionale davanti ai fatti compiuti. Sa benissimo di non avere grandi argini alla propria azione. Non nelle Nazioni Unite e nella comunità internazionale, che al di là delle dichiarazioni di facciata, esercitano un flebile, e nulla più che formale, supporto nei confronti di Fayez Serraj. Non negli Stati Uniti, lontani spettatori di questa crisi perlomeno dall’avvento dell’amministrazione Trump; e certamente non in una Unione europea che emette un comunicato non menzionando neppure il nome di Haftar e le sua responsabilità nel rischio di una evoluzione violenta della crisi ma che si limita a richiamare “tutte le parti coinvolte” al rispetto degli accordi. I miliziani hanno capito che il vento è cambiato e che il ruolo dei paesi del Golfo è sempre più influente e remunerativo, in Libia come in tutto il Nord Africa. Unione europea che emette un comunicato non menzionando neppure il nome di Haftar e le sua responsabilità nel rischio di una evoluzione violenta della crisi ma che si limita a richiamare “tutte le parti coinvolte” al rispetto degli accordi. I miliziani hanno capito che il vento è cambiato e che il ruolo dei paesi del Golfo è sempre più influente e remunerativo, in Libia come in tutto il Nord Africa.


Tuttavia, Haftar ha due vincoli: non dispone (ancora) di una forza militare così soverchiante per prendere militarmente la capitale; ma soprattutto, se vuole conservare una legittimità, interna e internazionale, non può permettersi un bagno di sangue. I tempi per un suo ingresso non appaiono ancora maturi. Finché Misurata, che dispone di uno spirito identitario da “città-stato”, difende la capitale, l’ingresso del generale resta difficile.
Haftar ha combattuto per anni prima di liberare Bengasi, ha già subito le prime perdite solamente affacciandosi ai sobborghi di Tripoli. L’azione costituisce una specie di bluff: gli serve soprattutto per capire chi è disposto a fargli la guerra e su chi invece può contare. Le trattative nel sottobosco continueranno, la sua propaganda finalizzata a descriverlo come “liberatore dalle forze terroristiche” pure. Il supporto internazionale che può vantare e un clima di generale appeasement nei  sui confronti lo favoriscono nel medio e lungo periodo. È consapevole che la sua credibilità dipenderà da come prenderà il potere: ciò avrà influenza sugli equilibri e gli interessi di tutti gli attori coinvolti, quelli interni e quelli internazionali.
Infine, un’ultima considerazione: anche ammesso che sia capace di guadagnare il potere in breve tempo e di conservarlo a Tripoli in un paese dalle istituzioni inesistenti, visto che ha 75 anni e pare non goda di ottima salute (è solo di un anno fa il suo ricovero parigino), questa presunta stabilità che porterà il generale in Libia quanto potrebbe durare?



venerdì 13 settembre 2019

Fallisce l'ultimo contrattacco di Haftar su Tripoli

Fallisce il violento contrattacco lanciato da Khalifa Haftar per riconquistare le aree a sud di Tripoli, perse contro le forze di Sarraj negli ultimi giorni.

Haftar si è mosso contro le forze del
Governo di accordo nazionale libico (GNA) dopo l’offensiva a sorpresa che aveva inflitto all’Esercito Nazionale Libico (LNA) la perdita di numerose postazioni. Il Generale Haftar è quindi intervenuto pesantemente impiegando sia le truppe di terra che la componente aerea. I bombardamenti hanno colpito anche alcune aree della capitale nel tentativo di riconquistare Ain Zara, Yarmouk, Wadi Rabea e Khalit Al-Furjan. Ma la difesa di Fayez Sarraj
ha retto, tanto che i soldati regolari, dopo poche ore di battaglia, hanno obbligato il nemico a ripiegare. Inoltre, sono stati catturarti diversi uomini di Bengasi, mentre altri si sono arresi spontaneamente. Tripoli, al momento, sta vivendo
una relativa calma, la situazione sembra tornare alla normalità, sia pur precaria, con schermaglie sporadiche tra le parti, e il calo dei raid sulla città.

Le forze del Governo di accordo nazionale libico, intanto, hanno ripreso l’offensiva a sud. Nelle ultime ore i caccia di Sarraj hanno bombardato il quartier generale avanzato dell’Esercito Nazionale Libico a Qasr Ben Ghashir, uccidendo almeno 30 miliziani di Haftar. Non si sa se i raid siano stati la risposta al tentativo di contrattacco su Tripoli o se preannuncino un’offensiva di terra imminente. I militari di Sarraj, vicini alla città, assediano l’aeroporto internazionale e hanno inviato numerosi rinforzi verso al-Sabia, che dista circa 40 chilometri dalla capitale. È possibile che cerchino di sfruttare l’ennesimo fallimento del nemico per colpirlo a sorpresa dove meno ci si aspetta. In questo caso i vantaggi sarebbero due: da una parte si completerebbe l’accerchiamento allo scalo; dall’altra, si toglierebbe al Generale l’ultima rotta stradale percorribile (che passa da al-Sabia) per far arrivare rifornimenti e rinforzi alla prima linea.

mercoledì 21 agosto 2019

Crisi di Governo, l'ignoranza di Salvini

“Amor vincit omnia”.



La frase che @Salvini ha sfoggiato ieri in Senato, è una locuzione latina che all’origine e nella sua interezza suona così : “Omnia vincit amor et nos cedamus amori” (“L'amore vince tutto, arrendiamoci anche noi all'amore"). 
L’ex Ministro dell’Interno non lo sapeva, altrimenti avrebbe evitato volentieri una semi-dichiarata condizione di resa all’amore. 



@Morisi ha passato a @Salvini un discorso che nemmeno in uno dei momenti più difficili della politica italiana è riuscito a scollare il #capitano dalla sua volgarità dialettica, dalla banalità dei pensieri, dal confronto filisteo, dalle frasi fatte, dalle spacconate da bar, 
dalla polemica misera che snobba il progresso sociale, civile , culturale e politico.
Per fortuna, pur senza “arrendersi all’amore” ma con l’intervento della Procura di Agrigento, anche gli ultimi 80 migranti tenuti in ostaggio a bordo della @openarms sono sbarcati.
E va bene così.



martedì 9 luglio 2019

MIGRANTI: IL BIECO OBBIETTIVO DELLA POLITICA CATTIVA CHE ALIMENTA L’ODIO E UCCIDE LA LIBERTÀ


Il Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, sostiene che con la Missione Sophia furono recuperate e portate in Italia migliaia di persone. Da qui la scusa per dare il via alla battaglia contro i Centri di accoglienza e i barconi: una crudeltà che serve a mascherare il fallimento della politica migratoria di questo Governo. In particolare proprio quella del Ministro dell’Interno, i provvedimenti del quale altro non fanno se non aumentare il numero dei cosiddetti clandestini e, di conseguenza, l’insicurezza dei cittadini italiani. 

LA CHIUSURA DEI CENTRI DI ACCOGLIENZA.
I CARA (Centro di accoglienza per richiedenti asilo), sorti nel 2008 e pensati come centri di prima accoglienza per i migranti irregolari e richiedenti asilo o protezione internazionale, sono stati spesso oggetto di inchieste  giornalistiche e giudiziarie che ne hanno messo in luce le pessime condizioni:
isolamento, sovraffollamento, mancanza di servizi, irregolarità negli appalti assegnati, infiltrazioni di gruppi criminali nella gestione. 
La permanenza dei richiedenti asilo nei Cara non avrebbe dovuto superare i 35 giorni, invece, di fatto, i soggiorni sono arrivati a superare i due anni. Luoghi pensati per il transito temporaneo si sono trasformati in dimore fisse nelle quali venivano ammassate persone particolarmente fragili, sconvolte, vittime di tratta o tortura accanto a famiglie con bambini.
Situazioni al limite che hanno portato gli attivisti e gli stessi migranti ospiti delle strutture a chiederne la chiusura. Ma in cambio di misure più umane e corrette.
Invece, sì è fatto di ogni erba un fascio ed è cambiato tutto, in peggio. 

I CARA, anche i più virtuosi, come quello di Castelnuovo di Porto, vengono chiusi mentre i migranti con protezione umanitaria vengono buttati per strada senza possibilità d’appello. All'indomani di sgomberi pressoché immediati si ritrovano scardinati da realtà in cui si erano faticosamente integrati. Davanti a loro un futuro incerto, sotto un ponte o per strada, con la mano tesa. Alcuni li troviamo davanti ai nostri supermercati: educati, timidi, affamati. A volte allungano un curriculum ai passanti, sperando di trovare un lavoro. Disperatamente illusi, a fronte di altri che si ingegnano e si riciclano come corrieri della droga e varia manovalanza della criminalità organizzata.
Eppure, in origine, doveva essere una questione di diritti civili. Parliamo, nella maggior parte dei casi,di vittime di tratta, terrorizzate all’idea di essere divise, spostate, portate chissà dove.

LA GUERRA ALLE ONG

La tattica si serve dell’etichetta:
sono “trafficanti di esseri umani”, fanno accordi accordi illeciti, dietro di loro agiscono  finanziatori interessati che ne foraggiano l'attività e il guadagno.
Calunnie, bugie, balle smentite dai dati reali e dalle inchieste. I finanziatori delle Ong sono tutt’altro che anonimi giacché i bilanci delle donazioni ricevute dalle organizzazioni umanitarie sono pubblici per obbligo di legge e consultabili anche online.
 L'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) ha inoltre provato l'inesistenza di una correlazione tra presenza di Ong in mare e partenze. Anzi: al calo di imbarcazioni di soccorso è corrisposto un aumento dei migranti in partenza. E dopo la clamorosa vicenda della Sea-watch3 e della Sua Capitana, Carola Rackete, la tragica realtà degli arrivi smentisce minuto per minuto l’efficacia del pugno duro salviniano. Tra il primo maggio e il 21 giugno 2019, sono partite dalla Libia 3.926 persone. La media giornaliera è di 62 partenze con navi Ong al largo della costa e di 76 partenze senza Ong (dati ISPI).
 Il 7 giugno,tanto per fare un esempio, sono arrivate 147 persone. A Pozzallo ne sono appena sbarcate, soccorse al largo di Lampedusa dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza. Altre, a decine, sono arrivate a bordo di barchini di fortuna, tanto che
lʼhotspot dell’isola è al collasso, con oltre il doppio dei migranti che può ospitare.

IL BIECO OBBIETTIVO DELLA POLITICA CATTIVA.

Smantellare il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), cancellare la protezione umanitaria, chiudere indiscriminatamente i centri di accoglienza vuol dire trasformare in ombre decine di migliaia di persone, senza denaro e senza lavoro. Lasciarle sulle nostre strade servirà ad esasperare le già tormentate e abbandonate periferie. La percezione dell’insicurezza andrà ad alimentare rabbia, odio, rifiuto. Giustificando un taglio netto alla nostra libertà. E quel che è peggio, alla compassione, alla comprensione, dell’altro. All’umanità.



D.Bart.

venerdì 28 giugno 2019

SEA WATCH3: PERCHÉ CAROLA RACKETE HA RISPETTATO DIRITTO INTERNAZIONALE E LEGGI ITALIANE.

L’obbligo di soccorso in mare è previsto sia dal diritto internazionale consuetudinario (che nel nostro ordinamento ha valore di diritto costituzionale in base al rinvio operato dall’art. 10 Cost.), sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM) e dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) (entrambe ratificate dall’Italia e che nel nostro ordinamento hanno valore di legge, anzi superiore alla legge per l’art. 117 Cost.). Per previsione espressa di quest’ultima Convenzione il soccorso si conclude solo con lo sbarco delle persone in un porto sicuro, che è un porto in cui la loro vita non è più in pericolo e i diritti umani fondamentali sono loro garantiti. La comandante della nave Sea Watch 3, Carola Rackete, ha deciso di non rispettare il divieto di ingresso nel mare territoriale italiano e portare finalmente i migranti soccorsi il 12 giugno scorso verso un porto sicuro per lo sbarco. Nonostante la si accusi ora di aver violato le leggi dello Stato italiano, e in particolare il divieto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 del d.lgs. 186/1998 e il divieto di ingresso imposto dal Ministro dell’Interno sul fondamento del DL 53/2019, c.d. sicurezza-bis, la comandante Rackete, fin dall’inizio dei soccorsi, non ha fatto altro che rispettare un obbligo imposto dal diritto internazionale e dalle leggi sia italiane sia del suo stato di bandiera. Ciò che in tutta questa vicenda appare invece manifestamente illegittimo, sia dal punto di vista del diritto costituzionale italiano sia del diritto internazionale è proprio il c.d. decreto sicurezza bis. L’unico porto di sbarco che era stato indicato alla Sea Watch 3 è il porto di Tripoli, dove nessuno sbarco di migranti è lecito perché in ragione delle gravissime violazioni dei diritti umani fondamentali che i migranti subiscono in Libia, nonché del conflitto in corso, la Libia non può essere in alcun modo considerata un porto sicuro (si veda da ultimo la Raccomandazione agli stati della Commissaria ai diritti umani del Consiglio d’Europa). Come deciso dal GIP di Trapani in una recente sentenza l’essere riportati in Libia avrebbe costituito un’offesa ingiusta alla quale i migranti stessi avrebbero potuto opporsi anche con la forza in legittima difesa (art. 52 c.p.). Una volta chiarito che verso Tripoli la Sea Watch non avrebbe in alcun caso potuto dirigersi, la comandante si è lecitamente diretta verso il porto sicuro più vicino, e quindi Lampedusa. Tutti gli stati membri della Convenzione SAR hanno l’obbligo di cooperare affinché il comandante della nave che ha prestato soccorso sia liberato dalla propria responsabilità (ovvero possa far sbarcare le persone soccorse) nel minor tempo possibile e con la minor deviazione dalla propria rotta. L’aver individuato Lampedusa come luogo di sbarco costituisce quindi non solo un comportamento legittimo, ma anche il più ovvio da parte della Comandante che aveva una legittima aspettativa di vedersi assegnare lì un luogo di sbarco. Starà alla magistratura valutare eventuali responsabilità penali a carico della comandante e dell’equipaggio della nave, ma è presumibile che anche qualora eventuali comportamenti illeciti siano constatati venga comunque riconosciuta la scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.) o dell’aver commesso il fatto in adempimento di un dovere (art. 51 c.p.). Va in ogni caso ricordato che in nessuno dei casi in cui sono state aperte indagini a carico di Ong per i soccorsi in mare si è mai giunti a una condanna: quando i giudici si sono pronunciati hanno sempre considerato legittimo il comportamento di chi aveva prestato il soccorso in mare. Se di responsabilità si vuole parlare, sarebbe meglio parlare di quelle dell’Italia. Va infatti considerato che la nave, probabilmente già da prima, ma sicuramente da quando è entrata nelle acque territoriali italiane, si trova sotto la giurisdizione dell’Italia per l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, pertanto il prolungarsi del trattenimento a bordo della nave dei migranti, già estremamente provati, integra da parte dello Stato italiano una violazione dell’art. 3 e dell’art. 5 della Convenzione . Su questa conclusione non incide il rifiuto della Corte di imporre all’Italia misure cautelari ed urgenti, tale pronuncia, infatti, non è sul merito della vicenda ma, appunto, solo sulla misura cautelare. È un fatto che le norme dell’ordinamento internazionale e costituzionale sono sempre più spesso violate da politiche di ostacolo alle operazioni di soccorso in mare. Fonte: FRANCESCA DE VITTOR, docente di Diritto internazionale e Diritti dell’uomo alla facoltà di Giurisprudenza

sabato 22 giugno 2019

MIGRANTI: QUANDO LA REALTA' DIVERGE DA FANTASIA, PROGRAMMI E PROCLAMI.

Nonostante le roboanti dichiarazioni di chi si autoproclama salvatore e guardiano delle patrie frontiere, in Italia i clandestini aumentano. 
Così come, di pari passo, aumenta l’insicurezza.
La crudele battaglia contro i barconi  e la criminalizzazione di chi salva la gente in mare ha il solo scopo di stendere il classico velo sui pasticci e sul fallimento della politica migratoria del Ministro dell’Interno, Matteo Salvini.

Innanzitutto, non è vero che tutti i migranti arrivano sui barconi. Dall’Africa, come da ogni altra parte del mondo, si arriva via terra, con gli aerei, spesso con visti turistici. Solo  il 5 percento dei migranti sbarca sulle nostre coste.

Con il decreto sicurezza, 120 mila migranti sono diventati irregolari, quindi clandestini, perciò potenziale manovalanza per la criminalità organizzata e mafie varie.

Solo negli ultimi sei mesi la Germania ha rimandato in Italia 1200 migranti. Particolare che il Ministro dell’Interno ha evitato di divulgare. Preoccupato com’è che il crescente consenso nei confronti della sua politica possa subire una sia pur lieve flessione. 

Lo stesso Ministro, peraltro, non si presenta alle riunioni europee appositamente organizzate per rivedere il trattato di Dublino. In particolare per ridiscutere il  regolamento che impone di inoltrare la richiesta di asilo nel paese di prima accoglienza: un passaggio importante che, al momento,  addossa tutto il peso degli arrivi sui paesi più facilmente raggiungibili attraverso le rotte del Mediterraneo, come l’Italia e la Grecia. 

Intanto, mentre si sbandiera il successo “umanitario” di aver ridotto le morti in mare, nell’ultimo anno sono annegati nel Mediterraneo 1500 migranti. Per dire di quelli che si sono potuti contare; quanti altri non sappiamo. 
Attualmente almeno 1 migrante su 6 muore durante la traversata. Nel 2017 ne moriva  1 su 19. 



1 migrante su 2 muore  nei campi libici; perciò dei 10.000 migranti riportati in Libia quest’anno ne sono stati condannati a morte 5.000
Tutti gli esseri umani passati per i campi libici hanno subito torture, stupri e violenze di ogni genere, tra cui la schiavitù.
Riportarli in Libia, quindi, significa rendersi complici di un massacro, giacché, spesso, gli stessi scafisti sono uomini della guardia costiera libica ai quali lo Stato italiano ha delegato  la “sicurezza” dei rifugiati e dei migranti.

È così che si alimentano insicurezza, paura, avversione, razzismo, crudeltà. Ciò che per i sovranisti-nazionalisti è un successo. Mentre  ad altri fa orrore.

D.Bart.

sabato 20 aprile 2019

Tripoli: in 600 senza acqua e cibo. Migliaia di famiglie libiche in fuga, 3.000 migranti bloccati in zone di conflitto

 Nel centro di Qaser Bin Gashir più di 600 persone, tra le quali bambini molto piccoli e donne in gravidanza, inviano appelli disperati: non hanno più cibo, non hanno acqua.


Centro di Qaser Bin Gashir


Venerdì scorso le forze di Haftar hanno conquistato l’area è intorno sono ancora in corso scontri violenti; è impossibile far giungere loro generi alimentari o soccorsi. Ora temono il trasferimento in un altro centro, a Zintan, dove morti di tubercolosi  sono sempre più numerosi. E nonostante la gestione dei centri sia stata criticata e bocciata dai vari organismi internazionali,  i governi europei, compreso quello italiano, restano indifferenti davanti alla  violazione sistematica delle convenzioni internazionali, alle condizioni sanitarie agghiaccianti, alle continue torture cui sono sottoposti migliaia di rifugiati. Condizioni che l’esplosione della guerra ha reso ancora più disumane. 

Centro di Qaser Bin Gashir


I combattimenti hanno inoltre costretto migliaia di famiglie libiche a fuggire dalle proprie case per cercare riparo dai parenti o in rifugi temporanei in edifici pubblici: scuole, palestre, uffici. Fra meno di due settimane gli ospedali avranno terminato le scorte di forniture mediche.. Acqua ed elettricità scarseggiano, i rifugiati e i migranti bloccati nei centri di detenzione governativi vicini alle  zone del conflitto sono oltre 3.000. Per loro non esiste via di fuga, il fuoco incrociato li sfiora giorno e notte.
#MédecinsSansFrontières  ha soccorso in questi giorni i centri di Anjila, Abu Salim, Sabaa. Ha fornito acqua potabile a quello di  Tajoura dove le persone della comunità danno un grande aiuto portando cibo ai migranti. Ma nessuna soluzione permanente è stata presa in considerazione dalle autorità libiche. Nel centro di Ain Zara, a 6,5 chilometri dalla linea del fronte, sono  ammassate 540 persone, in condizioni disumane.



Centro di Qaser Bin Gashir



Sebbene il numero di persone all’interno dei centri possa variare di giorno in giorno, al momento ci sono 135 persone in quello di Anjila, a 5,5 chilometri dal fronte, mentre pochi giorni fa c’erano 910 persone nel centro di Abu Salim, il più vicino a quello che nei prossimi giorni potrebbe essere territorio di scontri, dopo il bombardamento del quartiere la notte del 16 aprile. L’UNHCR si sta preparando a trasferire una parte delle persone più vulnerabili da Abu Salim al proprio Centro, ma lo spazio è limitatissimo.

D.Bart.


martedì 9 aprile 2019

GUEARRA IN LIBIA: ''NON CONDIVIDONO IL CIBO PERCHE' SIAMO CRISTIANI''

Nei centri di detenzione libici sono trattenute attualmente circa 5,700 persone. Sono uomini, donne e bambini la cui esistenza è, al momento, scandita da poche regole, sia pur malfamate. Se con il cambiamento della situazione politica anche queste dovessero crollare una nuova  emergenza andrebbe ad aggiungersi al caos generale. 

Nell'immagine centro di detenzione libico a Zintan, a 160 km da Tripoli (fonte OPEN)

Le violenze inflitte alla popolazione civile durante gli scontri armati non hanno freni, vengono perpetrate da tutte le parti in conflitto, senza distinzione alcuna. Perché in guerra non esistono buoni e cattivi, si combatte per uccidere. Ma per il momento non c’è una missione umanitaria pronta a correre in soccorso della Libia.  Dai messaggi che filtrano si capisce che i detenuti sono al corrente della situazione

Gira voce che in alcuni centri di detenzione - come a Qaser bin Ghasir e Gharyan - i migranti si trovino bloccati senza viveri e senza elettricità. L’unico piano di evacuazione fino ad ora eseguito ha riguardato i dipendenti dell’Eni e dell’ambasciata italiana. Ma nessuna  missione umanitaria è  stata organizzata per il soccorso in Libia.

Il conflitto
Il conflitto vede contrapposti il Governo di accordo nazionale di Fayez al-Sarraj a Tripoli, (appoggiato delle Nazioni Unite, compresa l’Italia,  i cui interessi economici sono prevalentemente concentrati nella zona nord-occidentale del Paese), e le forze del Generale Khalifa Haftar, (appoggiate dagli Emirati Arabi Uniti), che controlla la Cirenaica con le città di Bengasi e Tobruk.
La tregua umanitaria chiesta dall’Onu non viene minimamente rispettata. Si cominciano a contare i morti, una cinquantina per ora, da una parte e dall’altra. Il conflitto è arrivato fino alla periferia di Tripoli con il bombardamento dell’aeroporto. 


In città le scuole sono chiuse, la gente s’ammassa nei supermercati per fare scorte di cibo, alcuni hanno già abbandonato le proprie abitazioni in cerca di luoghi ritenuti più sicuri.
Attacchi missilistici da parte delle forze di Haftar.-milizie dell’autoproclamato Liyan national army (Lna)- hanno  colpito la città di Grad da Garian,  a circa 80 chilometri da Tripoli. 

I lager libici
I centri di detenzione in Libia sono 26. È li che la guardia costiera libica, finanziata anche con il contributo dell’Ue, rinchiude tutti i migranti che tentano di lasciare l’Africa via mare. Chiunque manifesti, anche pacificamente, viene sottoposto a violenze e torture di vario genere, come si è potuto documentare  nel centro di Triq al Sikka a Tripoli.


Centro di detenzione libico a Zintan, a 160 km da Tripoli (fonte OPEN)


Oppressi, torturati, ammassati in spazi ristretti e senza servizi igienici: è questo il destino dei migranti meno fortunati che non sono riusciti a superare la barriera dei guardiani del mare. Dalla capitale libica sotto assedio  arrivano ad Open messaggi come questi: “Siamo circa 130 profughi e viviamo in un hangar. Alcuni di noi hanno passato più di due anni nei centri di detenzione. Fa molto freddo e il cibo scarseggia. I libici non vogliono condividerlo con noi perché siamo cristiani".

“Abbiamo paura. Non possiamo scappare e anche se cerchiamo di farlo rischiamo di essere rapiti, per cui preferiamo stare in questa prigione disgustosa. È un momento terribile. La guerra ci fa paura. Sentiamo le bombe cadere».
Questo è il messaggio di un ragazzo eritreo. Uno dei tanti già segregati in condizioni pietose, che stanno vivendo una situazione ancor più devastante.

D.Bart.

sabato 6 aprile 2019

L'AVANZATA DI KHALIFA HAFTAR SU TRIPOLI: UN BLUFF O UN POSSIBILE BAGNO DI SANGUE

Khalifa Haftar passa all’atto e decide di prendersi la Libia. Irrompere nella capitale è finalmente, per il Generale, un traguardo raggiungibile: ora che la popolazione, stremata dai disordini, desidera soltanto un salvatore, ora che i capi delle milizie non sembrano assolutamente propensi ad impegnarsi in pericolosi combattimenti.

È facile immaginare che Haftar conti di portare dalla propria parte molti gruppi armati della capitale. La situazione è tale da escludere uno scontro ideologico. Alla “fede”, semmai, si ispirano solo alcuni miliziani salafiti, seguaci di un predicatore saudita, che militano nell’esercito del Generale.
A prevalere, in questa fase, sono interessi, opportunità legate ad un quadro più generale e internazionale.
Haftar è sostenuto economicamente dagli Emirati Arabi Uniti, supportato,forse,dai sauditi e dai russi attraverso i mercenari del gruppo Wagner presenti in territorio libico. Può contare, inoltre, sull’appoggio politico e d’intelligence dei francesi.

Evidentemente, non su quello degli Stati Uniti dell’era Trump, molto defilati e indifferenti nei confronti di eventi che non riguardino direttamente l’America. Non su quello delle Nazioni Unite o della comunità internazionale che, sia pur sommessamente, appoggiano Fayez al Sarraj, premier del governo di Tripoli riconosciuto dalla comunità internazionale dopo l'accordo di pace del dicembre 2015.

Non su quello dell'Unione Europea che, senza nemmeno nominare i co-protagonisti della difficile situazione libica, si rivolge a "tutte le parti coinvolte" invitandole ad evitare un'evoluzione violenta della crisi. Le milizie hanno ormai capito che alla Libia, come a tutto il Nord Africa, convenga appoggiarsi ai paesi del Golfo

Il Generale Haftar, ministro della Difesa e Capo di Stato Maggiore del Governo cirenaico di Tobruk, non ha al momento a disposizione una forza militare in grado di sopraffare militarmente la capitale; ma soprattutto, se vuole assicurarsi legittimità, interna e internazionale, non può far degenerare la crisi in un bagno di sangue. E con  Misurata, citta-stato che difende Tripoli, l’ingresso del Generale non potrebbe passare se non attraverso azioni violente. 


Secondo alcuni osservatori l'avanzata verso la capitale costituirebbe una sorta di bluff per capire chi è disposto ad appoggiarlo.

Haftar ha combattuto per anni prima di liberare Bengasi, ha già subito le prime perdite solamente affacciandosi ai sobborghi di Tripoli. Possibile allora che le trattative ufficiose continuino, cosi come la  propaganda che lo indica come “liberatore dalle forze terroristiche”? Il supporto internazionale e il clima di generale pacificazione lo favoriscono nel medio e lungo periodo. La sua credibilità si gioca tutta in queste ore.
E ammesso che riesca a conquistare il potere a Tripoli, quanto tempo avrebbe a disposizione per riorganizzare un paese nel caos, privo ormai di una qualunque istituzione cui appoggiarsi per ricominciare? Haftar ha 75 anni, e dopo il suo recente ricovero a Parigi non circolano voci confortanti sulla sua salute.

D.Bart.








lunedì 18 febbraio 2019

GOVERNATIVI E RIBELLI HOUTHI SI RITIRANO LASCIANDO HODEIDAH ALLE NAZIONI UNITE.


YEMEN. 18 febbraio 2019- Dopo il round negoziale in Svezia tra ribelli Houthi e governo yemenita, le due parti hanno raggiunto ieri un accordo sulla città di Hodeidah: si ritireranno lasciando il controllo della città portuale sul Mar Rosso alle Nazioni Unite. È la prima fase del ridispiegamento congiunto delle forze armate.

Il porto di Hodeidah dopo un raid saudita (Foto: Yemen Press)

Oltre al porto di Hodeidah, il movimento Houthi e le forze governative e pro-governative
dovranno abbandonare i porti di Salerà e Ras Isa e le periferie della città. Sono passati due mesi esatti dal cessate il fuoco del 18 dicembre scorso. Una tregua per lo più rispettata, rotta da alcuni scontri tra le due parti mai degenerati in un nuovo conflitto.
La popolazione può tornare, quantomeno, a sperare; perché Hodeidah ha un’importanza fondamentale per i civili: secondo porto del paese dopo Aden, è il primo punto di accesso degli aiuti umanitari in arrivo in Yemen. Circa il 70% del soccorso entra da questo scalo, anche se si tratta di un supporto comunque insufficiente a far fronte alla più dura crisi umanitaria della regione. Il blocco imposto dai Sauditi via terra e via aria impedisce l’arrivo sistematico dei cargo delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali, e ciò che entra non può bastare ad una popolazione di 28 milioni di persone, l’80% delle quali sopravvive solo grazie ad aiuti esterni.
Toccherà poi alla fase 2 predisporre l’intero ridispiegamento delle forze armate quando anche i combattenti dovrebbero essere posti sotto il controllo delle Nazioni Unite. I dettagli della demilitarizzazione e del ridispiegamento non sono noti. Si tratta della parte più complessa e difficile perché andrà a pesare sugli attuali equilibri della città portuale. Ma la strada verso un dialogo politico reale non può prescindere da questa fase.
L’emergenza umanitaria resta comunque il primo problema da affrontare. Quattro anni di guerra a guida saudita contro lo Yemen hanno ridotto i due terzi della popolazione civile ad una sorta di sopravvivenza in pre-carestia ed un terzo in condizioni di estrema vulnerabilità. 24 milioni di persone, invocano una qualche forma di assistenza umanitaria o di protezione, 14,3 milioni tra queste hanno bisogno di un soccorso immediato.
Basta? Neanche per sogno! I paesi che hanno voluto la guerra, che la conducono e la perseguono dal marzo 2015, al di fuori d’ogni principio di legalità internazionale, continuano ad armarsi. Ad Abu Dhabi, dove è in corso la fiera militare, gli Emirati Arabi hanno siglato contratti di acquisto di armi per un valore totale di 1,3 miliardi di dollari. Tra i prodotti in mostra sono presenti anche molti armamenti già impiegati in Yemen: armi automatiche, carri armati, veicoli blindati. Abu Dhabi ha firmato inoltre un accordo di vendita da 335 milioni di dollari con la statunitense Raytheon Co. of Waltham per missili Patriot terra-aria.
La commissione per le relazioni internazionali dalla Camera dei Lord britannica ha duramente condannato nei giorni scorsi la vendita di armi da parte di Londra all’Arabia Saudita. Per la prima volta l’esportazione militare verso Riyadh è stata definita “illegale”: il governo è accusato di non aver mai condotto un’indagine indipendente sull’uso che di quelle armi viene fatto in Yemen. Si parla e si tratta di stragi di civili -uomini donne bambini- , di distruzione e attacchi sistematici contro infrastrutture, scuole, cliniche, case.
(D.Bart.)

mercoledì 23 gennaio 2019

DA BECCARIA A SALVINI: NASCITA E DECLINO DELLA SOCIETA' UMANA

L’arresto del terrorista rosso Cesare Battisti, condannato all’ergastolo dai tribunali italiani e latitante all’estero da trentasette anni, ha esortato Matteo Salvini a pronunciare una frase che ci riporta indietro di secoli :”che marcisca in galera”.
Ore dopo, la morte di un tunisino, ammanettato e legato alle caviglie dalla polizia nel corso del suo arresto, sortisce, sempre da parte di Salvini, un cinico : “dovevamo offrigli caffè e cornetto”?
Quindi, la notizia dei 170 migranti morti nel Mediterraneo, senza soccorso, senza scampo. La più tragica circostanza di questo inizio d’anno spinge il ministro italiano a scaricare ogni responsabilità sulle ONG, sugli scafisti, e persino sulle stesse vittime:” chi non parte non muore”.
Gli fa eco, a stretto giro, la disperazione di uno dei 3 superstiti del naufragio: “meglio morti che tornare in Libia”. Perché in Libia, dove giungono sfiniti dopo aver attraversato il deserto stretti nella morsa della fame e della sete, vengono imprigionati, picchiati, torturati e, se son donne, violentate.
Quel che Salvini archivia alla spicciolata con un :”la pacchia è finita”.
Commenti brutali e sconsiderati che, a malapena, si possono tollerare in strada o nei bar, ma che pronunciati da un ministro della Repubblica gridano vendetta al cospetto di ogni cielo e di ogni Dio. Una fortuna (sciagurata) che a riequilibrare lo scompenso arrivino gli alleati di partito: non è più voglia di pacchia, ma colpa della Francia che impone alle sue ex colonie africane il franco per finanziare il suo debito pubblico.
È comunque un passo avanti. Almeno si ammette che, forse, scappano dallo sfruttamento, quindi, dalla fame.




Infine, dopo sole 48 ore di preavviso, l'esercito ha cominciato lo sgombero del Cara di Castelnuovo di Porto. 320 persone smistate come merce e come bestie, parte al Sud, parte al Nord, costrette ad abbandonare un percorso di integrazione intrapreso e perfettamente riuscito.
Aldilà della crudeltà gratuita del decreto Salvini, da oggi abbiamo altre persone senza casa, senza cibo, senza documenti, in giro per le nostre città.

L'ILLUMINISMO E LA COSTITUZIONE ITALIANA

Nel 1764 Cesare Beccaria dava alle stampe il saggio più noto dell’illuminismo italiano : “Dei delitti e delle pene”
In esso si riscontra la stessa prospettiva dei principi filosofici ed etici cari a Montesquieu e
Rousseau: le pene devono svolgere una funzione rieducativa e non repressiva, devono favorire la sicurezza sociale e un'integrazione sociale del criminale. Il concetto stesso di “pena”, all’interno di una società umana, non deve tollerare soprusi e barbarie.
Principi ai quali, nel 1948, si ispirò la nostra Costituzione che all’articolo 27 sancisce:
“L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”
Anni, secoli di evoluzione del pensiero, riforme, tutti gli sforzi fatti da chi lavora per e nelle carceri per consacrare i valori della costituzione sulla rieducazione del condannato spazzati via, in un attimo, da quella frase dedicata a Battisti , "deve marcire in carcere".

Che dire, poi, del commento sulla morte del 31enne tunisino in Toscana?
“Buon sabato ai poliziotti che a Empoli facendo il loro lavoro hanno ammanettato un violento, un pregiudicato che poi purtroppo è stato colto da arresto cardiaco. Se i poliziotti non possono usare le manette per fermare un violento, ditemi voi cosa dovrebbero fare, rispondere con cappuccio e brioche?".
Non era opportuno, se non doveroso, attendere prima l’esito degli accertamenti dei magistrati ? Proprio nel rispetto di quella Costituzione che, viceversa, difendiamo a spada tratta solo quando conviene, nell’ambito di quel perverso gioco politico che non fa mai gli interessi della gente e della Storia, ma che mira soltanto a personali tornaconti. (Vedi terzo referendum costituzionale 4 dicembre 2016)


PARADOSSI, CINISMO, MENEFREGHISMO.

“Chi non parte non muore” .
“La colpa è delle ONG che pattugliano al largo della Libia promuovendo di fatto le partenze”. Come dire che se chiudi i forni la gente smetterà di chiedere il pane.
Intanto, alla Corte penale internazionale dell’Aja, è arrivato l’ultimo aggiornamento dell’Onu con l’elenco di nefandezze ed orrori vari cui sono costretti i migranti in Libia:

-privazione della libertà e detenzione arbitrarie in centri ufficiali e non ufficiali;
-tortura, compresa la violenza sessuale;
-rapimento per riscatto; - estorsione;
-lavoro forzato;
-uccisioni illegali.

I responsabili sono funzionari statali, gruppi armati, contrabbandieri, trafficanti e bande criminali.
Il tutto avviene nella piena consapevolezza di quei politici che, dall’Italia e da Bruxelles, da circa due anni, versano migliaia di euro al Governo libico e alle milizie affinché blocchino le partenze verso i porti italiani.
Aiuti anche materiali, come motovedette ed equipaggiamento militare.



Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948. 
Preambolo: Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

IL RAZZISMO NEMICO DELLA FRATELLANZA

Il razzismo ha radici profonde nella storia delle relazioni umane. Nasce dall’istintiva, primitiva paura verso il diverso; quella paura che in qualche modo ha quasi giustificato sofferenze e torture. Ma è stato il Nazismo, nella seconda guerra mondiale, ad ufficializzare, elaborare, organizzare il culto di una “razza” superiore. Il concetto di “persona umana”, sopravvissuto nei secoli anche ai momenti più duri e difficili, veniva spazzato via dall’etichettatura del “diverso”, dell’inferiore, del meno umano fino alla razionalizzazione del più grande genocidio della storia: progettato e puntiglioso.
Allora erano gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari e gli handicappati. Ora, a tornare in scena, è il nero, il magrebino, il musulmano. Sono loro le nuove vittime di un razzismo che si alimenta di concretezze legate all’economia, alla sicurezza, al posto di lavoro, ai troppi ragazzi inoperosi che vagano per le nostre città chiedendo elemosine. È il cosiddetto Terzo Mondo che preme ai confini degli Stati benestanti: la frontiera americana con il Messico, le coste mediterranee del Sud Italia, di Malta e della Spagna. Sono queste le mete agoniate, il punto d’arrivo di un cammino lungo e disperato verso il miraggio di una vita meno dura, più fortunata. Un sogno che si spezza, spesso, nella sprezzante realtà dello sfruttamento del lavoro, della prostituzione, della manovalanza attraverso i mille sudici rivoli della malavita organizzata. Ma tant’è!


LE CAUSE DELLA MIGRAZIONE DI MASSA - LO SFRUTTAMENTO DELL’AFRICA

Le multinazionali, che in nome e per conto di vari governi adottano politiche economiche adatte solo ad incrementare i guadagni per gli investitori, impoveriscono da sempre e progressivamente il territorio africano. Per contro, le popolazioni locali, non riscuotono da tutto ciò il benché minimo riscontro economico.

Dalle ricchissime miniere del Congo, ad esempio, si estrae la columbite-tantalit nota con il termine abbreviato “Coltan”. Si tratta di una polvere dalla quali si ricavano i micro condensatori, utilizzati per la fabbricazione di pc e smartphone.
In queste miniere si lavora a mani nude, quando va bene con setacci e piccole pale, sempre immersi mani e piedi nel fango , scavando in profondità. Le pietre raccolte vengono messe in sacchi di plastica e trasportati a mano o sulla testa per poi essere riversati a terra e setacciati a mano. A questo durissimo lavoro partecipano anche i bambini.



Petrolio, gas naturale, carbone , stagno, diamanti, uranio, rame, cobalto, piombo, zinco, oro, amianto, cromo, nikel, bauxite:
tutte le regioni del continente africano custodiscono favolose risorse. Ma gran parte della ricchezza mineraria dell’Africa è stata ed è tuttora “mal-gestita” da grandi gruppi multinazionali.
Se a tutto ciò aggiungiamo il bombardamento e la destabilizzazione di grandi territori, in nome di uno spocchioso quanto falso desiderio d’esportazione di democrazia, come è accaduto in Libia, le conseguenze non potranno che essere tragiche.
E non è chiudendo i porti che li fermerete. Perché loro, i “diversi”, sono così tanti e cosi disperati che continueranno a partire, ed anche a morire, finché i corpi degli affogati, uno sull’altro, non formeranno un lungo ponte su cui camminare, dalle sponde africane a quelle europee.

È questo che l’idiozia dei politici non comprende: la forza dirompente, caparbia, persistente della disperazione.

D.Bart.