È probabile che alla fine Khalifa Haftar si prenderà la Libia, ma il suo obiettivo è entrare nella capitale come salvatore della patria contando sul supporto di una popolazione stanca del caos e su capi miliziani con la pancia troppo piena per voler combattere.
Non si tratta di uno scontro ideologico: le milizie raramente sono portatrici di una visione ideologica e in questo momento, peraltro, lo sono forse maggiormente alcune milizie salafite “makdalis” che operano all’interno del presunto esercito nazionale di Haftar (LNA) e che sono seguaci di un predicatore saudita. In generale prevalgono certamente interessi opportunistici ed è probabilmente ciò su cui punta Haftar: esercitare un potere di deterrenza tale da attirare a sé, o almeno nel campo della neutralità, diversi gruppi armati della capitale.
Il Generale gode del supporto economico emiratino, e probabilmente saudita, e di quello militare russo, che è presente in Libia con diversi mercenari del gruppo Wagner, ma anche sul supporto politico e probabilmente di intelligence dei francesi.
Haftar sta agendo nel suo stile: si dice pronto a trattare, si siede ai tavoli dei negoziati a stringere le mani ma poi agisce sul terreno mettendo la comunità internazionale davanti ai fatti compiuti. Sa benissimo di non avere grandi argini alla propria azione. Non nelle Nazioni Unite e nella comunità internazionale, che al di là delle dichiarazioni di facciata, esercitano un flebile, e nulla più che formale, supporto nei confronti di Fayez Serraj. Non negli Stati Uniti, lontani spettatori di questa crisi perlomeno dall’avvento dell’amministrazione Trump; e certamente non in una Unione europea che emette un comunicato non menzionando neppure il nome di Haftar e le sua responsabilità nel rischio di una evoluzione violenta della crisi ma che si limita a richiamare “tutte le parti coinvolte” al rispetto degli accordi. I miliziani hanno capito che il vento è cambiato e che il ruolo dei paesi del Golfo è sempre più influente e remunerativo, in Libia come in tutto il Nord Africa. Unione europea che emette un comunicato non menzionando neppure il nome di Haftar e le sua responsabilità nel rischio di una evoluzione violenta della crisi ma che si limita a richiamare “tutte le parti coinvolte” al rispetto degli accordi. I miliziani hanno capito che il vento è cambiato e che il ruolo dei paesi del Golfo è sempre più influente e remunerativo, in Libia come in tutto il Nord Africa.
Tuttavia, Haftar ha due vincoli: non dispone (ancora) di una forza militare così soverchiante per prendere militarmente la capitale; ma soprattutto, se vuole conservare una legittimità, interna e internazionale, non può permettersi un bagno di sangue. I tempi per un suo ingresso non appaiono ancora maturi. Finché Misurata, che dispone di uno spirito identitario da “città-stato”, difende la capitale, l’ingresso del generale resta difficile.
Haftar ha combattuto per anni prima di liberare Bengasi, ha già subito le prime perdite solamente affacciandosi ai sobborghi di Tripoli. L’azione costituisce una specie di bluff: gli serve soprattutto per capire chi è disposto a fargli la guerra e su chi invece può contare. Le trattative nel sottobosco continueranno, la sua propaganda finalizzata a descriverlo come “liberatore dalle forze terroristiche” pure. Il supporto internazionale che può vantare e un clima di generale appeasement nei sui confronti lo favoriscono nel medio e lungo periodo. È consapevole che la sua credibilità dipenderà da come prenderà il potere: ciò avrà influenza sugli equilibri e gli interessi di tutti gli attori coinvolti, quelli interni e quelli internazionali.
Infine, un’ultima considerazione: anche ammesso che sia capace di guadagnare il potere in breve tempo e di conservarlo a Tripoli in un paese dalle istituzioni inesistenti, visto che ha 75 anni e pare non goda di ottima salute (è solo di un anno fa il suo ricovero parigino), questa presunta stabilità che porterà il generale in Libia quanto potrebbe durare?
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