domenica 28 settembre 2025

GUSTAVO PETRO: UNA FORZA ARMATA PER LA PALESTINA.


Il presidente della Colombia, Gustavo Petro, ha chiesto la creazione di una Forza armata di protezione per la Palestina.

Non quella dei Caschi Blu delle Nazioni Unite, bensì un esercito che rappresenti gli stati alleati della Palestina. 


Sarebbe questa la logica più efficace per fermare il genocidio dei palestinesi, smantellando al contempo occupazione illegale e apartheid. In piena contrapposizione alle intenzioni di Francia e Arabia Saudita che stanno lavorando alla creazione di una  "forza di stabilizzazione" che, secondo Petro, consoliderebbe le attuali posizioni di Israele. 

L’ iniziativa colombiana per la Palestina è sostenuta da Sud Africa, Namibia, Senegal, Malesia, Honduras, Bolivia e  Cuba. 

“Gaza ha bisogno di difesa, non di risoluzioni vuote. Il popolo palestinese affronta lo sterminio in tempo reale mentre i governi potenti distolgono lo sguardo. Opporsi al genocidio di Israele significa difendere l'umanità stessa.”

dice il portavoce di Protect Palestine, una comunità internazionale che sostiene “l'azione militare degli Stati per fermare il genocidio, smantellare l'occupazione coloniale sionista e l'oppressione del popolo palestinese.”


Con l'immediata mobilitazione di una forza di protezione a Gaza, si chiede innanzitutto “la rottura dell'assedio illegale, l'imposizione di una no-fly zone per fermare i bombardamenti aerei, la garanzia di aiuti umanitari senza restrizioni e la protezione fisica della popolazione palestinese da ulteriori massacri e pulizie etniche da parte di Israele.”


Quello che chiede Protect Palestine è ben lontano dalle attuali prospettive, ma la rabbia che serpeggia nel mondo sta isolando sempre di più Israele dalla comunità internazionale. 

Un numero crescente di Paesi europei è disposto a riconoscere lo Stato palestinese senza alcuna negoziazione. E mentre Benjamin Netanyahu davanti all'Assemblea generale dell'Onu afferma: "Finiremo il lavoro a Gaza, il più velocemente possibile", 

un centinaio di diplomatici di oltre cinquanta Paesi abbandonano l'aula.



Ad ascoltare l’opinabile discorso di 40 minuti restano in pochi,
 

dimostrando che Israele si trova ormai in una posizione di minoranza. 

Si è alzato ed ha lasciato l’Assemblea generale anche Yehuda Cohen, padre del soldato Nimrod Cohen, tuttora  ostaggio di Hamas. «Anch’io me ne sono andato e ho continuato a manifestare all’esterno – ha spiegato – Netanyahu racconta solo bugie, come il circo che ha creato con i cartelli che agitava e il ridicolo quiz”.




A dimostrazione che Il boicottaggio non è assenza di diplomazia, ma un atto diplomatico. La diplomazia non consiste solo nell'ascoltare, ma anche nel dare segnali. Quando un capo di Stato è accusato di crimini di guerra, pulizia etnica o violazioni del diritto internazionale, rimanere seduti in un cortese silenzio rischia di essere interpretato come una tacita approvazione. L’abbandono dell’aula evidenzia i limiti morali senza compromettere del tutto il dialogo. Quegli stessi diplomatici continueranno a sedersi al tavolo delle trattative, ma non daranno legittimità a parole che considerano fondamentalmente in contrasto con le norme internazionali.


La storia insegna che il silenzio di fronte al potere è spesso interpretato come complicità. I diplomatici lo sanno meglio di chiunque altro. Paragonare la protesta alla petulanza significa appiattire un atto profondamente simbolico a una metafora da cortile. Le Nazioni Unite possono effettivamente essere imperfette, ma i gesti di coscienza, anche quelli dirompenti, sono parte di ciò che impedisce alla diplomazia di decadere in una vuota cerimonia.  

Spesso, la cosa più diplomatica che un rappresentante possa fare è rifiutarsi di fingere che tutto vada bene.  

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