Sessantatré studi, raccolti in una grande meta-analisi internazionale -pubblicata nel 2013-, hanno mostrato una verità tanto semplice quanto scomoda: più cresce l'intelligenza, più cala la religiosità. La correlazione è chiara, statisticamente significativa, verificata su studenti universitari, adolescenti e adulti. Nei soggetti con maggiore formazione e capacità analitica, la fede tradizionale si affievolisce. Non per ostilità o arroganza, ma perché l'intelligenza spinge a dubitare, a verificare, a non accettare nulla come indiscutibile.
I ricercatori hanno osservato che l'effetto è più marcato tra studenti universitari e popolazione generale rispetto ai giovani sotto età accademica. Si può continuare a rispettare riti e tradizioni, ma l'adesione profonda ai dogmi si indebolisce man mano che il pensiero diventa più lucido.
Gli studiosi propongono tre spiegazioni principali. La prima è la minor tendenza al conformismo. Le persone più intelligenti, dotate di pensiero critico, resistono meglio alla pressione del gruppo e quindi alla necessità di credere come fanno gli altri. La seconda è lo stile cognitivo analitico, opposto a quello intuitivo: chi analizza e scompone il mondo nei suoi meccanismi tende a ridurre lo spazio del mistero e della fede cieca. La terza spiegazione è psicologica: molte delle funzioni adattive della religione (il bisogno di controllo, di autoregolazione, di autostima e di attaccamento sicuro) vengono soddisfatte anche dall'intelligenza stessa. Chi possiede risorse interiori, equilibrio e consapevolezza non ha bisogno di delegare a un potere superiore il senso di protezione.
Esistono, naturalmente, credenti che dubitano, che interrogano i dogmi, che fanno della fede un esercizio di profondità e non di pigrizia. Teologi brillanti, filosofi religiosi di prim'ordine, scienziati credenti. Questo studio non è indirizzato a loro. Si rivolge a chi usa la religione come scorciatoia per non pensare, come assicurazione contro l'incertezza del vivere. Si rivolge al bigottismo: quella degenerazione in cui la fede smette di essere scelta e diventa paura travestita da virtù.
Il bigotto non dubita, non esplora, non tollera. Trasforma la religione in dogma morale e la morale in arma politica. Mentre l'intelligenza invita alla complessità, il bigottismo offre semplificazioni: bene e male, dentro o fuori, fedele o nemico. È la forma più rassicurante di ignoranza perché non chiede di pensare, ma solo di obbedire.
Le conseguenze sociali sono visibili. In quasi tutti i paesi, la religiosità più intensa si concentra nelle comunità più esposte all'incertezza, nei contesti dove la vita è più dura e le opportunità più limitate. La religione diventa rifugio, identità, consolazione di fronte a un mondo che non sempre offre sicurezza o giustizia.
Ma è proprio su questa fragilità che prospera un certo tipo di politica. Non si tratta di dire che i credenti sono meno intelligenti. Si tratta di riconoscere che chi ha meno strumenti culturali, chi vive nell'incertezza economica, chi è stato lasciato indietro dal sistema, trova nella religione quella rete di sicurezza che lo Stato ha smesso di garantire. E la destra questo lo sa, lo coltiva, lo sfrutta. Non offre soluzioni reali, offre identità consolatorie e capri espiatori.
La strategia è antica quanto cinica: prima svuoti la società di sicurezze (precarietà, tagli al welfare, paura del diverso), poi ti offri come salvatore. Il leader forte sostituisce lo Stato, il nemico esterno sostituisce l'analisi dei problemi reali. E la religiosità popolare diventa il linguaggio perfetto per questo inganno: non chiede di capire, chiede di credere.
I dati elettorali lo mostrano con imbarazzante coerenza: le aree più religiose votano a destra, spesso a destra estrema. Non per convinzione ideologica, ma per lo stesso meccanismo che alimenta il conformismo religioso: bisogno di appartenenza, desiderio di protezione, delega dell'autonomia. Si vota il leader come si prega il santo, cercando in entrambi la promessa di ordine e di salvezza.
Lo mostrano bene le piazze dove sventolano bandiere nazionaliste accanto a
rosari e crocifissi.
Basta ascoltare i comizi dove si invoca Dio per giustificare la chiusura dei porti o l'esclusione del diverso; ascoltare i talk show dove il moralismo religioso diventa garanzia di "buonsenso" contro l'élite pensante. La religiosità popolare, quando diventa strumento politico, si trasforma in meccanismo di controllo.
La destra conservatrice incoraggia tutto ciò perché ne ha bisogno: il bigottismo è una forma di ordine, un argine contro la libertà individuale e la critica razionale. Più una società pensa, più diventa difficile da governare con slogan e paure. Meno una società pensa, più obbedisce.
Ecco perché questa destra teme le università, ridicolizza gli intellettuali, taglia i fondi alla cultura pubblica. Non è ideologia, è autoconservazione. Ogni persona che impara a pensare è un fedele in meno, un elettore che sfugge al controllo. L'ignoranza non è un effetto collaterale del loro modello: è il carburante. Ecco perché l'intelligenza è un atto sovversivo e il dubbio un peccato capitale per chi vuole consenso facile.
Non si tratta di schierarsi contro la spiritualità o di negare il valore che la fede può avere nella vita delle persone. Si tratta di smascherare l'uso politico della religione come strumento di sottomissione intellettuale. Nessuna fede può sostituire la responsabilità del pensiero. L'intelligenza non promette paradisi, ma offre la sola cosa che il conformismo religioso non può dare: la possibilità di scegliere, di sbagliare, di essere liberi.
Oggi che il moralismo religioso è tornato linguaggio politico, ora che le destre usano il crocifisso come vessillo di potere e il dogma come surrogato di cultura, difendere il pensiero critico non è un vezzo da intellettuali, è resistenza politica.
Ogni volta che rifiuti la semplificazione, che pretendi fatti invece di slogan, che scegli la complessità invece del conformismo, stai sottraendo consenso a chi governa con l'ignoranza. Pensare è resistere al conformismo dei templi e dei talk show, è difendere la dignità della ragione contro il rumore delle certezze preconfezionate.
Pensare è il vero atto di fede nel futuro. Non nei paradisi promessi, ma nella dignità umana di cercare risposte, di sopportare il dubbio, di non delegare la propria coscienza né a un pulpito né a un partito. È l'unica rivoluzione che nessuna chiesa e nessun regime possono davvero soffocare: quella che avviene, in silenzio, dentro una mente libera.
Pensare è l'unico voto che la destra non può comprare.
“Pensare è un atto di libertà. “
Da Timostene, una delle menti più brillanti di X