mercoledì 31 gennaio 2018

Siria - 100 morti. L'operazione "Ramo d'Ulivo e l'allarme di Macron: rischio 'invasione' turca.


"Ramo d'Ulivo": è stata chiamata così l'operazione che il 20 gennaio scorso l’esercito turco ha lanciato sulla regione di Afrin, nel nord-ovest della Siria. Un nome che nella simbologia universale della pace suona come una beffa. 

Un centinaio i morti, ma Ankara smentisce

L’aviazione ha aperto l'offensiva con numerosi bombardamenti sulla zona seguiti, il giorno dopo, dall'imponente invasione di terra eseguita da truppe di fanteria e corazzate turche. L'accerchiamento si è esteso fino al confine orientale, da dove si sarebbero mossi  migliaia di combattenti appartenenti all’opposizione siriana filo-turca dell’Esercito Libero. Gli stessi che da mesi occupano la striscia di terra intorno alle cittadine di Azaz, Al-Bab e Jarablus, conquistate con l’aiuto di Ankara nell’ambito dell’operazione Euphrates Shield.

Il mirino degli attacchi era puntato contro obiettivi del Ypg, il più importante componente delle Syrian Democratic Forces (Sdf), la milizia fortemente voluta ed appoggiata dagli USA nel nord-est della Siria per cacciare dalla zona lo Stato Islamico. Ultima vittoria della formazione, nel 2017, la riconquista di Raqqa, ex capitale del Califfato.

Da mesi, ormai, da Ankara trapelava l'intenzione di sottrare Afrin al controllo del Ypg. Anche a costo di un' operazione militare. Strappare ai curdi del Pyd il cantone di Afrin significa infatti porre fine ad ogni loro velleità di controllo sull’intero confine turco-siriano, con sbocco sul Mediterraneo.

All'operazione, pianificata da tempo, mancava solo il via libera di Putin. Che è, evidentemente, arrivato facendo dell'offensiva Turca un punto di svolta della guerra in Siria.

Da oltre un anno, infatti, poco dopo l’inizio del suo intervento in Siria, anche Mosca si era fatta garante dei territori sotto il controllo del Pyd, in virtù del contributo che quest’ultimo aveva dato alla lotta contro lo Stato Islamico. L’accordo, tutt'altro che tacito, era che gli Stati Uniti si fossero impegnati a garantire le conquiste curde a est dell’Eufrate, armando e assistendo le Sdf nell’offensiva su Raqqa, mentre la parte occidentale sarebbe rimasta sotto tutela della Russia, la quale, per garantire la presenza curda ad Afrin, aveva anche provveduto a mandare nella città un contingente di osservatori militari.
L' attacco turco pone fine a questa tutela. Anche se l'ufficialità rimane ibrida e torbida, al punto che sia la Russia che Assad condannano duramente l’operazione unilaterale turca.
Dichiarazioni che contraddicono le intenzioni, se è vera la notizia del ritiro degli osservatori militari da Afrin, avvenuto poche ore prima dell’attacco.
Autorevoli e sicure fonti, poi, confermano anche l'incontro di giovedì 18 gennaio a Mosca tra vertici militari turchi e russi per coordinare le operazioni.
Il comportamento di Mosca rimanda la mente alla stessa falsa retorica usata da Ankara per condannare l’attacco del regime di Damasco, sostenuto dall’aeronautica russa, sull’enclave ribelle di Idlib. Ankara è arrivata prrsino a convocare gli ambasciatori russo e iraniano e a minacciare contrattacchi, benché l’operazione fosse più o meno prevista nelle trattative di Astana, tenute tra Russia, Iran e Turchia nel settembre scorso.
Le dichiarazioni diplomatiche rese in queste ore tendono a difendere sia l’immagine della Turchia, paladina dei ribelli siriani, sia l’immagine della Russia, a sua volta garante dei curdi del Rojava.
Un' immagine idilliaca  ulteriormente danneggiata dalle dichiarazioni del rappresentante del governo del Rojava il quale ha confermato che i rappresentanti russi si sono offerti di fermare l’attacco turco solo in cambio della rinuncia curda ad Afrin in favore del regime di Damasco.

L'operazione "Ramo d'Ulivo", dunque, confonde acque già fin troppo torbide. Scompone le carte, aprendo la visuale su due diversi sviluppi, il primo dei quali presenta altrettante  prospettive.

-La prima è che potrebbe favorire la ripresa della conferenza di pace di Sochi, attualmente bloccata, e sulla quale la diplomazia russa ha messo il massimo impegno per risolvere l'intricata vicenda siriana.
Per raggiungere l'ambizioso obbiettivo, Mosca dovrebbe far digerire ad Ankara la presenza dei curdi del Pyd al tavolo della conferenza.
E il consenso all'attacco ad Afrin potrebbe rappresentare il termine dello scambio.

 
- La seconda è che la Russia abbia deciso di abbandonare irrevocabilmente i curdi,  cominciando dal nord-ovest, contando sul fatto che gli Stati Uniti faranno lo stesso a nord-est, evitando così di rimanere gli unici alleati dei curdi in un contesto regionale assolutamente ostile.

Sta di fatto che l’unico punto su cui le dichiarazioni ufficiali di Russia e Turkia concordano sono quelle riguardanti la responsabilità  degli USA nel generare la causa che ha portato la Turchia ad agire. Vale a dire, la creazione di un contingente di protezione dei confini nelle aree curde nel nord-est, forza addestrata da Washington

Il secondo sviluppo riguarda invece gli oppositori siriani. L’operazione su Afrin, condotta con il supporto dei ribelli dell’Esercito Libero controllati da Ankara, allarga infatti significativamente i territori già sotto controllo dei ribelli filo-turchi occupati nel quadro dell’operazione Euphrates Shield. Ciò avviene nelle stesse settimane in cui le massicce operazioni del regime siriano su Idlib (sostenute da forze iraniane e russe) rischiano di portare a un nuovo esodo di massa di civili e combattenti legati agli oppositori di Assad, com’era accaduto un anno fa dopo la presa di Aleppo. In questo modo le forze turche, che sono già disposte lungo il confine tra la provincia di Idlib e quella di Afrin, potrebbero facilitare il passaggio di civili e ribelli “moderati” verso Afrin e le zone di Euphrates Shield, intrappolando i jihadisti di Tahirir al-Sham (ex al-Nusra) ad Idlib, sotto l’attacco del regime.

L'eventuale successo di tale operazione modificherebbe la situazione attuale e finale della guerra, almeno nel nord-ovest della Siria. Eliminerebbe, innanzitutto, l’invadente presenza di Tahrir al-Sham, confinando la presenza curda a ovest dell’Eufrate. L’intera opposizione siriana passerebbe sotto il diretto controllo della Turchia, che ne sacrificherebbe l’autonomia di scelta in favore degli interessi di Ankara.
Assad, in cambio, otterrebbe di ridimensionare la campagna militare per riprendere Idlib, con la possibilita di poter negoziare i futuri accordi di pace direttamente con una controparte più accomodante e affidabile come la Turchia. Nel frattempo potrebbe occuparsi delle restanti sacche di resistenza a Damasco, nel sobborgo di Ghouta e nel sud.

Ipotesi che, verosimilmente, potrebbero rientrare nel quadro strategico concordato dai principali attori in gioco sullo scacchiere del nord-ovest siriano.
L'unica certezza, invece, è  che, nonostante gli accordi di Astana su Idlib e la protezione russa su Afrin, le bombe cadono ancora su entrambe le città, causando nuovi morti, altro dolore.
Al momento sarebbero oltre un centinaio le vittime dei bombardamenti turchi, ma Ankara smentisce.
Un orrore che si rinnova senza adeguato contrattacco, se non quello  rappresentato da furibondi quanto inutili messaggi diplomatici.

Il presidente francese, Emmanuel Macron, ammonisce la Turchia sui rischi di un' "invasione" del nord della Siria.
"Ho chiesto subito calma e cautela e ho fatto presente già dalle prime ore la nostra preoccupazione. Se non venisse rispettata la sovranità siriana ci troveremmo di fronte a un reale problema", ha detto il presidente intervistato dal Figaro. 

Secondo Macron le manovre di Ankara nel nord-ovest della Siria richiedono "discussioni e decisioni sia tra europei, ma più in generale tra alleati. Per questo - annuncia il presidente -  nei prossimi giorni parlerò  con Erdogan di questa offensiva contro l'enclave curdo-siriana di Afrin".
Per Macron "non è possibile costruire una sicurezza sul terreno senza il rispetto della sovranità siriana contro un nemico (i curdi) che non è più l'Isis".

Macron ha parlato al termine della cena con la comunità armena a Parigi. Qualche ora prima, davanti ai deputati riuniti all'Assemblea Nazionale, anche il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, aveva parlato della difficile situazione del nord della Siria, denunciato il rischio di un' "occupazione" da parte della Turkia.

D.Bart.

sabato 27 gennaio 2018

Attentato a Kabul, 95 morti. L' attacco suicida vicino al ministero dell'Interno.

Kabul. 27 gennaio 2018.

Un massacro. Non ci sono parole, altrimenti, per raccontare le conseguenze della triplice esplosione che ha fatto tremare stamattina il centro di Kabul. L'attacco suicida, rivendicato dai talebani con un messaggio whatsapp, ha provocato 95 morti e 163 feriti. Bilancio provvisorio.
Le esplosioni sono avvenute nei pressi di sedi strategiche, importanti come il ministero dell'Interno, gli uffici dell'Unione europea e dell'Alto consiglio per la pace. Anche la sede della polizia di Kabul si trova nelle immediate vicinanze. Per il trasporto dell'ingente quantitativo di esplosivo, i talebani hanno utilizzato un'autoambulanza. L'autobomba è saltata in aria dopo aver superato il primo check-point.

A rendere conto del  numero delle vittime è stato il portavoce del ministero dell'Interno, Waheed Majroh. Questo è solo l'ultimo  dei numerosi attentati contro Kabul, e forse quello con il maggior numero di vittime.
Il kamikaze che ha utilizzato un'ambulanza per passare i posti di blocco, al primo controllo ha detto che stava portando un paziente verso l'ospedale Jamuriat. Al secondo alt  è stato identificato e ha fatto esplodere la carica.

Tutto si è svolto davanti ad una delle barriere che proteggono l'accesso alla strada che porta alle sedi di diverse istituzioni: uffici del ministero dell'Interno, sede della polizia, delegazione dell'Unione europea, e il liceo per ragazze Malalai.

La maggior parte dei feriti, tra i quali alcuni bambini, è stata trasportata nell'ospedale dell'ong Emergency, vicino alla zona dell'attentato. "È un massacro", ha detto Dejan Panic, coordinatore di Emergency in Afghanistan.

La foto che accompagna il suo messaggio mostra numerose vittime distese nei corridoi, sotto le mura della struttura. Intorno, panico e pericolo. Un edificio vicino all'ospedale Jamuriat, alto diversi piani e con numerose crepe, minacciava di crollare, così i medici hanno chiesto ai civili di aiutare a spostare i feriti, che avrebbero rischiato di rimanere sepolti sotto le macerie in caso di crollo.

L'obiettivo privilegiato sarebbe l'Alto consiglio per la pace, che è incaricato dei negoziati con i talebani, al momento bloccati. L'attacco, rivendicato dal portavoce dei talebani dice testualmente: "Un martire ha fatto saltare in aria la sua autobomba vicino al ministero dell'Interno, dove si trovavano numerose forze di polizia".

L'esplosione, fortissima, ha letteralmente scosso la capitale. Le finestre dell'ufficio di Afp, che si trova a circa 2 chilometri di distanza, hanno tremato. A "Chicken Street",  la vicina strada degli antiquari, le vetrine si sono infrante come in tutti i quartieri a diverse centinaia di metri dal luogo dell'attentato. Un fotografo di Afp che si è recato  immediatamente sul posto ha visto diversi corpi insanguinati, "morti e feriti" sui marciapiedi. I residenti aiutavano nei soccorrere. Numerose vittime - uomini donne e bambini - portate nell'ospedale Jamuriat sono state curate nei corridoi sommersi di pazie.
Il livello d'allerta a Kabul è altissimo, in particolare nel centro e nel quartiere diplomatico, dove si trova la maggior parte di ambasciate e istituzioni straniere.
Si tratta del terzo attentato in Afghanistan in una settimana: dopo quello di sabato 20 gennaio all'hotel Intercontinental di Kabul, rivendicato dai talebani, e dopo quello di mercoledì 24 gennaio nella sede di Save the Children a Jalalabad, rivendicato dall'ISIS.

D.BART.

mercoledì 24 gennaio 2018

L' ATTACCO DELL' ISIS A 'SAVE THE CHILDREN' IN AFGHANISTAN.


Il blitz cruento, brutale che l'Isis ha inscenato oggi contro gli uffici della ong internazionale 'Save the Children' a Jalalabad City, nella provincia orientale afghana di Nangarhar, conferma lo stile barbarico, tipico di un terrorismo che agisce alla cieca, colpendo persino quelle strutture che in guerra si proteggono con la croce. L'attacco ha impegnato le forze di sicurezza afghane per ben dieci ore. Al termine di sparatorie ed esplosioni, che si sono susseguite per l'intera  giornata, le autorità hanno diffuso un provvisorio bilancio di 11 morti e 24 feriti. Tra le vittime vi sarebbero tre- forse quattro- membri di Save the Children.

L'assalto è scattato intorno alle 9 ora locale, con una forte deflagrazione davanti all'edificio che ospita l'organizzazione. Non è chiaro se provocata da un kamikaze che si è fatto esplodere o da un'autobomba. Quindi l'irruzione di quattro uomini che hanno preso posizione bloccando sotto la minaccia delle armi automatiche l'intero staff, una cinquantina di persone.

Come nell'attacco all'Hotel Intercontinental di Kabul, rivendicato dai talebani durante il fine settimana, poco dopo l'assalto una colonna di fumo nero si è levata nel cielo, provocata da un incendio ai piani alti del palazzo e che i vigili del fuoco hanno potuto spegnere solo al termine dello scontro.

Per le forze speciali e i reparti di teste di cuoio afghani, come sempre, il difficile compito di fronteggiare i terroristi cercando di non danneggiare le decine di persone tenute in ostaggio. Durante le lunghe ore di combattimento da tutto il mondo sono giunte condanne per il "crimine contro l'umanità" rappresentato da un attacco ad un'istituzione, come Save the Children, che ha come compito principale il sostegno dei bambini più poveri nelle zone di conflitto o in via di sviluppo. Di "grave violazione del diritto umanitario internazionale" hanno parlato ad esempio in una nota congiunta l'Alto Commissario per la Politica estera della Ue, Federica Mogherini, ed i commissari per le crisi umanitarie e allo Sviluppo, Christos Stylianides e Neven Mimica.

PERCHÉ L’ ESCALATION DI VIOLENZA?

L' obiettivo dei terroristi è quello mostrare un Afghanistan in subbuglio, perennemente sotto attacco,  diffondere la percezione di un Paese in crisi, far apparire debole il governo di Kabul.

Un compito tutt'altro che difficile per l' ISIS e i Talebani, considerata l'incosistenza del governo del Presidente Ghani, demolito da corruzione e rivalità all'interno dello stesso all’apparato.

Un governo inefficace, che non riesce a soddisfare nemmeno i bisogni minimi della popolazione
Per molti osservatori sarebbe fondamentale mantenere la presenza occidentale nel Paese. Almeno fino a quando non si troverà una governance locale decente.
Di parere contrario, ovviamente, sono i movimenti islamisti: Daesh, Al Qaeda e Talebani mirano a mentenere il Paese nel caos. È questa l'unica opportunità che hanno di aumentare il proprio potere e la propria influenza in Afghanistan.
Con altri Paesi occidentali anche l’Italia è impegnata nel sostegno al governo di Kabul, fornisce strumenti per garantire sicurezza alla popolazione, esercitando un importantissimo ruolo nell'addestramento e nella consulenza.

Far risalire l’escalation di attacchi degli ultimi mesi alla nuova strategia dell’amministrazione Trump per l’Afghanistan forse non è del tutto giusto.
La violenza in atto potrebbe avere natura puramente fisiologica.
In genere ci vogliono 20-30 anni prima che qualunque peace support operation possa mostrare i suoi effetti.  Il percorso di assestamento in Afghanistan sarà lento e chiederà pazienza.
Miglioramenti in ambito di sicurezza non sono possibili in tempi brevi, né un'ulteriore aumento di truppe cambierebbe la situazione. I popoli non guidano con fucili e carri armati, si gestiscono con buoni governi.

D.Bart.

domenica 21 gennaio 2018

TRA DEVASTAZIONE E ROVINE LA SIRIA RILANCIA IL TURISMO.

Città storiche e splendenti come Aleppo e Palmira sono parzialmente ridotte in pezzi, e così del gran parte del paese.
In tutta la Siria, gli edifici sono in rovina. Milioni di persone sono fuggite dalle proprie case. I siti storici sono stati distrutti, sia dai bombardamenti militari sia dalle mosse barbariche dello Stato islamico. E la guerra civile è ancora in corso.
Nonostante tutto i funzionari del ministero del turismo hanno partecipato sabato scorso alla fiera internazionale del turismo di Fitur a Madrid, nella speranza di attirare visitatori nel paese.
Un messaggio rivolto allo straniero un po' speciale, capace di vedere oltre la distruzione.
Ora che governo ha riconquistato in parte il controllo del territorio finito nelle mani dei ribelli,
il paese vive finalmente un minimo di stabilità, ma il rilancio del turismo sembra al momento un pericolosissimo azzardo. Ignorare quanto sia verosimile la ricaduta nella guerra che ha raso al suolo gran parte del paese è un errore paradossale.

Prima del conflitto, iniziato nel 2011, la Siria era un paese   tra i più interessanti dal punto di vista  turistico: dalla cittadella di Aleppo alle rovine dell'era romana di Palmyra il settore dei viaggi rappresentava una parte importante della sua economia. La guerra, peraltro ancora in corso, ha gravemente danneggiato se non interamente distrutto questi tesori di inestimale importanza e bellezza. L'insicurezza diffusa durante tutto il conflitto ha indotto la maggior parte dei governi a sconsigliare ai propri cittadini i viaggi in Siria.
Ma Bassam Barsik, direttore del marketing presso il Ministero del turismo siriano, ha rilasciato all'agenzia di stampa Agence France-Presse di Madrid una dichiarazione inequivocabile :
"Quest'anno è il momento di ricostruire la Siria e la nostra economia".
Barsik ha detto che l'anno scorso 1,3 milioni di stranieri hanno viaggiato in Siria. Sorvolando però sul fatto che tale cifra include anche viaggiatori giunti dal vicino Libano solo per un giorno.
Nel 2018, i funzionari siriani contano  comunque  di portare il numero di visitatori a due milioni.

Il governo siriano aveva già tentato un'operazione simile, seguita da aspre critiche. Accadde nel 2016 quando, attraverso il canale ufficiale di YouTube, aveva pubblicato un video con lo slogan "Siria sempre bella", promuovendo così il turismo nel paese. Il filmato mostrava ampie vedute della costa  e nuotatori che si tuffavano in mare. Si trattava in realtà di persone costrette dagli uomini del regime al ruolo di bagnanti.
Nel frattempo i militari combattevano per la riconquista di Aleppo, e l'intero Paese, prostrato dal dolore, versava sangue.

D.Bart.