martedì 24 ottobre 2017

IL NOME DI ANNA FRANK, EMBLEMA UNIVERSALE DELLO SDEGNO CONTRO IL NAZISMO, OFFESO DA UN MANIPOLO DI CERVELLI MARCI.

Di fronte agli adesivi esibiti nei giorni scorsi allo stadio Olimpico dagli ultrà della Lazio, si resta immediatamente impietriti nello sconcerto. Che senso ha mostrare il fotomontaggio con il viso di Anna Frank su una maglietta giallorossa per offendere la squadra avversaria?
Che attinenza può avere con la tifoseria del calcio quella dolce, delicata ragazzina olandese che ci ha raccontato persino con grazia anche i dolori della persecuzione subita? Che cos'ha da spartire quell' Anna Frank rispettata, onorata,  ricordata come simbolo universale dell'innocenza straziata e divorata dall'oppressione razzista con una masnada di barbari?
Essere accostati a lei e a ciò che rappresenta dovrebbe essere - ed è - un onore.
Ma l'odio, si sa, quando circola troppo lungo nel sangue degli uomini inquina fino all'impazzimento i loro cervelli.

Nel calderone putrescente dell’ignoranza, dove annaspano tifosi impazziti, il nome di Anna Frank è soltanto quello di un’ebrea. "Oggetto" d'offesa, dunque, che può essere scagliato contro il nemico. Un insulto, con il compito di avvilire chi lo riceve.
Solo degli emeriti imbecilli potevano far cadere simile scelta sulla ragazzina olandese che patì sotto Hitler la "prigionia" in un'angusta soffitta e di cui ci ha lasciato  pagine memorabili nel suo diario. Anna Frank, scovata dai nazisti insieme a tutta la sua famiglia, morì nel 1945 a Bergen Belsen divenendo, con il ritrovamento del suo racconto, il simbolo di un popolo sacrificato all'ottusità di un'aberrazione mentale.
Oggi, quella stessa idea deviante ha ridotto, paragonato la vittima ad uno sfregio, un insulto da lanciare contro i tifosi della squadra avversaria. Nella dissacrazione inflitta ad una icona cara agli uomini di buona volontà, che ripudiano il razzismo, l’antisemitismo e ogni forma di ingiustizia contro l'intera umanità, i tifosi laziali hanno scelto però come arma un boomerang,  che nell'azione di ritorno li travolge con l'efficacia dello sdegno istintivo universale. 
Perché l'immagine stampata sugli adesivi esibiti dagli ultrà laziali è quella di una bambina splendente nella solarità del sorriso e disarmante nello sguardo, nell'ammicco innocente verso l'altro. In quegli occhi c'è l'incondizionata fiducia, tipica del "cucciolo " che ancora necessità della protezione adulta. È il ritratto che risveglia l'istinto di tenerezza, di simpatia, di amore innato degli umani. E del mondo animale in genere. Solo i bruti non ne sono dotati.

Il bel faccino di Anna Frank stampato sulla  maglia della Roma,  più che una provocazione dovrebbe essere una gratificazione  per i romanisti, sempre che non siano mentalmente disturbati come gli avversari. La comunità ebraica di Roma, che ha appena commemorato il rastrellamento del 1943,  potrebbe convertire la propria giusta indignazione in una calibrata provocazione. Proponendo cioè agli ultrà della Lazio di usare come sputi contro gli avversari - dopo quello di Anna Frank- anche i nomi di altri illustri ebrei quali:
Leon Trotsky, Albert Einstein, Sigmund Freud, Baruch Spinosa, Enrico Fermi, Rita Levi Montalcini, Gorge Gershwin, Leonard Bernstein, Marc Chagall, Amedeo Modigliani, Franz Kafka, Marcel Proust, Boris Pasternak, Alberto Moravia (Pincherle), Umberto Saba, Italo Svevo, Elsa Morante, Primo Levi, Woody Allen, Mel Brooks, i fratelli Marx, Steven Spielberg, Stanley Kubrick, Roman Polanski, Oliver Stone, Marilyn Monroe, Paul Newman, Cary Grant, Harrison Ford, Kirk Douglas, Mikael Douglas, Richard Gere, Sarah Bernhardt, Carol Kane, Jon Stewart, Jerry Lewis, Marcel Marceau, Winona Ryder, Peter Sellers, Dustin Hoffman, Marty Feldman, Walter Matthau, Tony Curtis, Peter Falk, Bob Dylan, Barbara Streisand, Arnoldo Foà, Leonard Cohen, Bruno Pontecorvo, Scarlett johansson, Natalie Portman,  Leone Gizburg e Natalia Giznburg,Golda Meir, Henry Kissinger, Bill Gates, Mark Zuckerberg, Giorgio Gaber, Dario Fo, Julio Iglesias, Calvin Klein, Harry Houdini...

Tanto per citarne alcuni.  E per non parlare del più noto degli israeliti, il Nazareno, quel Gesù appartenente alla tribù di David.

D. Bart.




domenica 22 ottobre 2017

Malawi - Povertà, superstizione, stregoneria. Uccisioni per la caccia ai "vampiri"

Tra superstizione e stregoneria, in Malawi, uno dei Paesi più poveri del mondo, si è scatenata una insensata caccia al vampiro che, da settembre ad oggi,  avrebbe fatto già sei incolpevoli vittime.

Persone che, in un crescendo di violenze, hanno pagato con la vità il dilagare della paura contro i ''succhiatori di sangue'', come vengono chiamati. Non si tratta di creature demoniache nel senso di quelle tramandate dalle leggende europee o dalla penna di uno scrittore (come il Dracula di Bram Stoker), ma di uomini sospettati di nutrirsi del sangue altrui. E non si tratta di una caccia per modo di dire, perchè, nelle scorse ore, a Blantyre, secondo centro per dimensioni del Paese, due persone sono state linciate da un gruppo di autonominatisi vigilantes.

Una delle due vittime, ha riferito un portavoce della polizia, era un ragazzo di 22 anni, affetto da epilessia , sorpreso dai 'cacciatori di vampiri' non appena uscito dall'ospedale. E' stato circondato picchiato e dato alle fiamme. Stessa sorte, a distanza di poche ore, per la seconda vittima, un uomo  lapidato per strada.

A fare le spese dell'ondata di violenza, in un Paese in cui la stregoneria è molto seguita, sono stati anche due belgi che il 15 settembre, a bordo di un 4x4 dopo un viaggio in Sud Africa, sono stati aggrediti e feriti gravemente, mentre il loro automezzo è stato fatto a pezzi.

Questa follia ha costretto il presidente del Malawi, Peter Mutharika, a recarsi nei distretti meridionali del Paese, teatro delle uccisioni, per cercare di fermare la violenza. Che non è solo comunque di un pugno di folli che pensano che esistono i vampiri e che uccidono chiunque per loro passi la sua vita a succhiare il sangue.
Il dilagare della violenza, legata alla criminalità comune, ha indotto l'ambasciata degli Stati Uniti e le Nazioni Unite a sconsigliare di visitare i distretti interessati dal fenomeno ed a diminuire la presenza di loro rappresentanti.

Globalist

venerdì 20 ottobre 2017

È salito a 15.000 il numero di rifugiati bloccati al confine tra Bangladesh e Myanmar

A partire da domenica notte, almeno 15.000 rifugiati Rohingya sono entrati in Bangladesh passando il confine a Anjuman Para nel distretto di Ukhia nel sud est del Paese.

Molti avevano deciso di restare in Myanmar, nel nord dello Stato di Rakhine, nonostante le continue minacce di morte ricevute, ma quando i villaggi sono stati inciendiati non è rimasta altra loro altra scelta se non quella di fuggire.

I rifugiati, con i quali i membri dello staff di UNHCR hanno parlato ieri, raccontano di aver camminato per una settimana intera prima di raggiungere il confine con il Bangladesh, alcuni lo hanno attraversato domenica notte, altri lungo tutta la giornata di lunedì tra il caldo e le piogge.

Attualmente sono accampati nelle le risaie del villaggio di Anjuman Para. Attendono il permesso per allontanarsi dal confine, da dove ogni notte è possibile sentire gli spari dal versante del Myanmar.

I volontari stanno distribuendo cibo e acqua alle donne e ai bambini, fortemente disidratati e affamati dopo un lungo cammino. Lo staff dell’UNHCR sta lavorando con Medici Senza Frontiere per identificare le persone malate e che hanno bisogno di assistenza medica.

Pressioni d' urgenza vengono inoltrate da ore alle autorità del Bangladesh affinché consentano l’ingresso a queste persone che fuggono dalle violenze e dalla difficile situazione nel loro Paese d’origine. Ed ogni minuto conta per chi è già in condizioni disperate.

Per far fronte a questo nuovo afflusso di richiedenti, l’UNHCR sta lavorando con il governo e altri partner all'installazione di un nuovo centro di transito dentro l’insediamento di Kutupalong; l'area potrebbe ospitare  1.250 persone. Sono in corso anche i preparativi per accogliere i nuovi arrivati nelle scuole di Kutupalong.

A partire dallo scorso 25 agosto sono circa 582.000 i rifugiati arrivati in Bangladesh dal nord dello Stato di Rakhine in Myanmar Tutti in fuga per sottrarsi alla nuova ondata di violenze in atto. 

I Rohingya costituiscono la minoranza etnica musulmana che vive nello stato occidentale del Rakhine,

L' esercito della Birmania è accusato di pulizia etnica ai danni della minoranza musulmana, mentre il governo birmano incolpa i militanti Rohingya.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito un "genocidio" le violenze perpetrate contro i Rohingya. "Coloro i quali chiudono gli occhi su questo genocidio perpetrato sotto la copertura di una democrazia ne sono collaboratori", ha detto Erdogan. 

I Rohingya sono ormai considerati una delle minoranze più perseguitate al mondo: musulmani in una Birmania a maggioranza buddhista. Sono poco meno di un milione su una popolazione totale di 50. La maggior parte di loro vive nello stato di Rakhine - in passato si chiamava Arakan, da cui il nome del loro movimento - e sono in Birmania da generazioni anche se originari del vicino Bangladesh. Nel 1982 la giunta militare li ha privati della cittadinanza per essere arrivati dopo il 1823, inizio della colonizzazione britannica. I Rohingya sostengono invece si essere discendenti dei mercanti musulmani che secoli prima entravano in Birmania per motivi commerciali. Ancora oggi senza cittadinanza i Rohingya non hanno diritto di voto, hanno grossi limiti nell'accesso all'istruzione,  alla sanità, alla proprietà. 

Ricevono spesso solo un'istruzione religiosa che li rende particolarmente esposti ai pericoli del  fondamentalismo e del radicalismo.

La situzione è ulteriormente degenerata nel 2012: da quel momento si calcola che almeno 160 mila Rohingya abbiano abbandonato la Birmania. Principalmente verso il Bangladesh, ma anche verso la Malesia, la Thailandia e l’Indonesia. 


D.Bart.





mercoledì 18 ottobre 2017

SU RAQQA LIBERA SVENTOLANO LE BANDIERE DEI VINCITORI, MA I DISSIDI TRA COMUNITÀ DIVERSE MINACCIANO ANCORA UNA PACE VERA.


Le bandiere delle Forze democratiche siriane (Fds) che sventolano nello stadio di Raqqa, capitale del Califfato sconfitto, sono soltanto un'illusione di pace vera. Sulle rovine della città straziata da anni di feroce occupazione jihadista e dai furiosi bombardamenti della coalizione anti-Daesh grava ancora l'ombra minacciosa di nuovi conflitti tra comunità portatrici di convinzioni in forte contrasto fra loro. Le fotografie con i peshmerga curdi che sventolano i loro gialli vessilli somigliano a quelle di altre liberazioni, anche europee, festeggiate dopo la sconfitta degli invasori. Simili sono le distruzioni delle case e le sofferenze della popolazione civile, con migliaia di morti, feriti e un numero altissimo di profughi.
Ma le condizioni del dopo-guerra, a Raqqa, sono diverse e più difficili. Nell'Europa del 1945, ad esempio, caduto il Terzo Reich, si poté ricostruire una nuova Germania, sia pure divisa, che ripudiava gli orrori del nazismo e che è tornata al centro del continente europeo. Raqqa, ora che sono state sgominate le milizie jihadiste e che i vertici del Califfato sono o morti o scomparsi in qualche tana del deserto, ritornerà solo a essere la periferia di un Paese lacerato e diviso come è la Siria di oggi.
Resta il fatto positivo che, con la caduta di Raqqa, tramonta definitivamente il sogno di uno stato islamico, che aveva galvanizzato e fatto sognare migliaia di musulmani innamorati della malvagia radicalità del sunnismo fondamentalista. Purtroppo la sconfitta del Califfo non comporta l'automatica scomparsa dell’ideale del jihad globale. Anzi, proprio il collasso territoriale di Daesh spinge molti dei cosiddetti foreign fighters, ossia i volontari accorsi da tutto il mondo a combattere per il califfo, a cercare di tornare nei Paesi d’origine. Con il rischio concreto di un aumento degli attacchi terroristici indiscriminati, a bassa intensità, come quelli subiti più o meno recentemente da  Europa e Nordafrica.

In Medio Oriente, nulla è stato  programmato per il "dopo-guerra". Vinta la battaglia, sbaragliato il Califfato, i fautori della riconquista -  milizie a maggioranza curda, fortemente sostenute dagli Usa-  non hanno messo a punto un programma.
Raqqa non è mai stata e non può essere una città "curda". E allora, con chi tratteranno le milizie? Con il regime di Assad, militarmente più forte, oppure con le forze arabe di opposizione, frammentate e deboli?
Combattere il Daesh e i suoi militanti ha permesso in questi anni ad attori diversi e fortemente contrapposti di agire uniti e affiancati. Ma ora che l’emergenza è finita, le vecchie divisioni riemergeranno, riaprendo inevitabilmente nuovi fronti di battaglia. Lo sanno bene gli stessi curdi, che negli ultimi anni avevano "occupato" territori contesi con gli arabi in Iraq. Proprio in questi giorni, in seguito allo sciagurato referendum per l’indipendenza lanciato dal governo regionale del Kurdistan iracheno (Krg), sono esplose le tensioni con Baghdad. Le forze irachene hanno mostrato i muscoli, obbligando i peshmerga a ritirarsi precipitosamente dalla città di Kirkuk, da sempre contesa fra le parti, e anche dal Sinjar, un distretto occupato dai curdi durante la guerra con il Daesh. Con gli iracheni si sono schierati l’Iran e la Turchia, ostili a ogni idea di Kurdistan indipendente, mentre Washington è rimasta palesemente spiazzata dalle tensioni, dato che sostiene entrambe le fazioni.

L’imperizia – o le ambizioni eccessive – del governo curdo di Erbil sono certo una causa di questo nuovo fronte di crisi. Ma, a un livello più profondo, ciò che manca nella regione è la capacità di percepire l’insicurezza e il disagio delle altre comunità etnico-religiose. L’indifferenza verso le ragioni dell’altro, allorché non collimino con le proprie, è politica quotidiana.
In Iraq, come in Siria e ovunque in Medio Oriente, si possono vincere guerre, ma sconfiggere il terrorismo non è un obiettivo militare, bensì politico, sociale, economico e culturale. La pace non è precisamente assenza di guerra; significa rimuovere le cause di ostilità fra comunità che vivono sullo stesso territorio. Una vittoria rischia di essere vana se si limita allo sventolio di una bandiera sulle rovine di una scuola, di un ospedale o di edifici civili. La vittoria vera, garante di pace è soprattutto saper ricostruire ciò che è stato distrutto rendendolo disponibile a tutti: uomini, donne, bambini, giovani e vecchi a prescindere da religione, lingua o razza.

D.Bart.

martedì 17 ottobre 2017

SIRIA - Raqqa è stata liberata. Oltre mille i civili uccisi nella guerra.


Raqqa è stata riconquistata dalle forze d'alleanza curdo-araba sostenuta da Washington.
Le milizie filo-Usa hanno issato oggi la propria bandiera all'interno dello stadio, ultimo bastione siriano dell'Isis nella cosiddetta capitale del Califfato. Nei dintorni della citta proseguono sporadici combattimenti, laddove resistono ancora alcune sacche di jihadisti fedeli al Califfo.
Pesantissimo il costo umano di quest' ultima battaglia che conta 3.250 morti, tra i quali 1.130 civili. Bilancio peraltro provvisorio perché
secondo l'Osservatorio per i diritti umani Ondus "altre centinaia di persone mancano ancora all'appello e potrebbero essere rimaste sepolte vive nelle loro case bombardate dai raid aerei".

Isis: primo raid degli Usa in Yemen, decine di morti.


    

Il primo attacco aereo degli Usa contro l'Isis in Yemen ha prodotto la distruzione di due campi di addestramento e l'uccisione di "decine" di miliziani. Questo l'annuncio del Pentagono: "I raid hanno minato i tentativi dell'organizzazione di addestrare nuovi combattenti". Fonti della Cnn affermano che nei luoghi colpiti  vi fossero almeno 50 miliziani dell'Isis. I due campi, situati nel governatorato di al Bayda, venivano utilizzati per addestrare i miliziani a compiere attacchi con Ak47, mitragliatrici, lanciarazzi.
"L'Isis - dice un comunicato del Pentagono - ha usato i territori fuori controllo in Yemen per pianificare, dirigere, ispirare, reclutare per attacchi terroristici contro l'America e i suoi alleati in tutto il mondo. Per anni, lo Yemen è stato un hub per i terroristi". Le Forze Usa starebbero sostenendo le operazioni antiterrorismo contro l'Isis e l'Aqap -al Qaida nella Penisola arabica, - per ridurre le capacità dei due gruppi di coordinare attacchi esterni e mantenere il controllo di pezzi di territorio nel Paese.

martedì 10 ottobre 2017

AFGHANISTAN 16 ANNI DOPO. QUANTO È COSTATA ALL' ITALIA LA CAMPAGNA MILITARE.

L’Osservatorio MIL€X sulle spese militari italiane pubblica il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo”,  per tracciare un inedito bilancio, non solo economico, della più lunga e costosa campagna militare della storia d’Italia.
Ecco il link per scaricare il rapporto dal mio sito: https://www.donatellabartolini.info/documenti/

(fonte: http://milex.org/)