giovedì 31 marzo 2016

Libia. Sostenuto dalle Nazioni Unite, Sarraj, sbarca a Tripoli. E già si parla di guerra.



 Il primo ministro riconosciuto dall'ONU arriva in Libia via mare. 

A cinque anni dall'intervento  armato di Francia e Granbretania, che portò alla caduta del regime di Mu’ammar Gheddafi, un nuovo attacco incombe sulla Libia. A programmarlo sono ancora una volta i principali governi europei ora che il primo ministro sostenuto dalle Nazioni Unite, Fayez al-Sarraj, è sbarcato a Tripoli accolto dalle proteste della popolazione. Come avvenne nel 2011 (anche da parte di Berlusconi), già si sono levate voci contrarie, certe che una spedizione potrebbe rafforzare la presenza di Daesh nel Paese.
Di parere favorevole ad un attacco è, invece, nostro ministro della difesa Roberta Pinotti che ha dichiarato : "L'Italia è disponibile ad avere la leadership di una missione di stabilizzazione in Libia”. Dal rovesciamento e dalla morte  del colonnello Mu’ammar Gheddafi il Paese è diviso tra due Parlamenti, oltre 140 tribù mentre il governo è in esilio a Tunisi: un caos. Il nuovo intervento armato viene motivato dalla necessità di fermare l'avanzata dell'Isis. Sempre che "avanzata"si possa definire il limitato numero di miliziani affiliati a Daesh, 3.500 circa, che si sono concentrati sulla costa centrale del Paese, nella citta di Sirte.



La questione, però, si è fatta più complessa... o più semplice, a seconda dei punti di vista! 

L'arrivo a Tripoli del governo di unità nazionale riconosciuto dall'Onu da il via alla formazione di un Governo che, una volta insediatosi, potrà chiedere legittimamente l'aiuto di Paesi stranieri in caso di necessità. E l'occasione eccola, servita su un piatto tutto d'oro: il governo di riconciliazione nazionale libico, guidato da Fayyez al Serraj non piace alle principali milizie libiche, che hanno chiesto alla  popolazione di opporsi a quello che considerano "un governo designato dall'Onu", il cui eventuale insediamento a Tripoli trascinerebbe la città in "un conflitto armato permanente".
Serraj, da parte sua, subito dopo il  giuramento ha lanciato un appello a "unificare gli sforzi dei libici per contrastare l'Isis". Parole cadute nel vuoto. Pare che in Libia non sia  l'Isis a mettere paura


I progetti e gli interessi internazionali

Il progetto del Governo italiano e della coalizione internazionale sostenuta dagli Stati Uniti si fonda su una recente risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU nella quale si parla di alcune “urgenze” e cioè : garanzia dell’approvvigionamento energetico e gestione dei flussi migratori. Sulla base di tali priorità viene riconosciuta all'autorità libica di unità nazionale la possibilità di richiedere l'intervento di forze esterne. Secondo il presidente della Camera di commercio italo-libica Gian Franco Damiano, però, il protagonismo del nostro Paese e le dichiarazioni interventiste del ministro Pinotti dimostrano un “grande dilettantismo” che rischia di danneggiare gli interessi delle oltre 150 imprese italiane che lavorano in Libia.



L'approssimazione degli interventisti

Per un attacco militare sul terreno ci vorrebbero almeno 300mila uomini. Mentre bombardare dal cielo significa colpire alla cieca causando ancora  centinaia di vittime tra i civili. La questione fondamentale è che la popolazione libica non ha modo di esprimersi,  i governi- e questo di Serraj non fa eccezione- sono delegittimati dai numeri e dalle loro azioni: Si comportano come ‘bande’ che proteggono interessi personali, privati e di gruppi, asserviti a logiche geopolitiche e al commercio del petrolio. L'esperienza, d'altronde, l’ha già dimostrato: gli interventi armati fanno gli interessi delle industrie belliche. Solo loro guadagnano dalla guerra. Non le popolazioni, che restano nel caos, a piangere i morti.

D:Bart

domenica 27 marzo 2016

Putin si congratula con Assad per la riconquista di  Palmyra. "Grazie alla Russia"!

La città siriana, famosa, nota e amata in tutto il mondo per le sue antiche rovine romane era caduta nelle mani DELL'ISIS nel maggio del 2015. Ora che Palmira è tornata ad essere ufficialmente libera,
il presidente russo Vladimir Putin si è congratulato con il presidente siriano Bashar al-Assad. Lo ha reso noto un portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, nel corso di una intervista rilasciata all'agenzia di stampa TASS.
"In una conversazione telefonica con il presidente siriano, Vladimir Putin si è congratulato con il suo omologo sulla riconquistata città di Palmira, e ha rilevato l'importanza di preservare questo sito storico unico per la cultura mondiale".
Ha anche detto che il recupero di Palmyra - che si trova a 249 km nell'entroterra dalla capitale Damasco- "sarebbe stato impossibile senza il sostegno della Russia."

Le forze governative siriane sono state infatti più che supportate dal pesante supporto aereo russo, che ha  inflitto il "colpo mortale" ai terroristi, neutralizzando così anche la potenza della dinamite innescata contro gli antichi templi di Palmyra.
La perdita del sito archeologico rappresenta una sconfitta bruciante, una battuta d'arresto catastrofica  per il gruppo estremista, che solo nello scorso anno era riuscito ad estendere il califfato ad ampie fasce di Siria e Iraq.
La Russia continuerà a sostenere Damasco nella lotta contro i terroristi. Putin, ne ha anche parlato con  il direttore generale dell'UNESCO, Irina Bokova, dicendosi costernato per il danneggiamento  degli antichi monumenti avvenuto durante l'occupazione dello Stato islamico.
"Palmyra è stata demolita più di una volta nel corso dei secoli ... noi ricostruieremo  questo tesoro, patrimonio culturale del mondo", ha promesso il presidente russo.
All'inizio di marzo, Putin ha ritirato gran parte del contingente militare russo in Siria, dicendo che il Cremlino aveva ormai raggiunto la maggior parte dei suoi obiettivi. Tuttavia, ha assicurato che la Russia è pronta a raggiungere -e in poche ore - il territorio siriano. Per riprendere i bombardamenti, qualora nuovi gruppi terroristici tentassero nuovamente di invadere il territorio di Assad. Sulla morte dei civili sacrificati, si minimizza. È la guerra!
D.Bart

mercoledì 23 marzo 2016

Da Al Qaida ai Talebani all'Isis. Le destre insorgono. Ma perché l'Occidente ha fallito?




Dirò subito una cosa che agli "anti-islam-a-prescindere" non piacerà. La carneficina avvenuta a Bruxelles, con tutto il suo peso d'orrore, è quotidianità in alcuni Paesi, come Iraq, Afghanistan, Siria dove le bombe degli Stati Uniti, della Nato o della Russia cercando di bersagliare obbiettivi sensibili, diffondo al tempo stesso quelli effetti tragici e dolorosi che abbiamo imparato a conoscere col nome fatuo ed evanescente di "danni collaterali". Nella cruda e tragica realtà si tratta di bambini ammazzati,  dilaniati, mutilati, feriti, rimasti orfani o forzatamente strappati alle proprie famiglie. Per dire delle conseguenze più atroci.



Per  sbaragliare i terroristi dell'Isis, i bombardamenti distruggono anche strade, mezzi di comunicazione e di trasporto. Bersagliano gli ospedali, causando la morte e il ferimento di un gran numero di civili. Ne sanno qualcosa i volontari di Médecins Sans Frontières, la cui struttura, a
Maarat al-Numan - Siria, è stata colpita recentemente ben quattro volte in due distinti attacchi.


Siamo in guerra, è vero, anche se ne abbiamo notizia soltanto quando ad essere sotto attacco siamo noi Occidentali. Perché l’orrore è quotidianità in Siria, dove la guerra civile contro Bashar al-Assad, gli attacchi terroristici dei fondamentalisti islamici e le bombe di Putin hanno già causato oltre centomila morti. Per fortuna il  cessate il fuoco siriano sembra per ora funzionare. Ma i fatti  ci dicono che i sanguinosi conflitti, dislocati qua e là, non sono riusciti ad annientare il fanatismo islamico, e nemmeno a fiaccarlo.



L'Occidente, che ha sacrificato le vite di tanti suoi figli, ha miseramente fallito. 

Dopo aver combattuto i Talebani, dopo aver annientato Al Qaida eccoci qui, ancora una volta costretti ad affrontare la sfida violenta del fanatismo isalmico. Un mostro dalle mille teste, che non muore mai. Ora ha la faccia tenebrosa e barbuta del Califfo di Isis Abu Bakr al-Baghdadi. L'uomo che "le Monde" ha definito il "nuovo Bin Laden, lo stesso che durante la guerra siriana del 2013, dopo il ritiro delle truppe di Assad,  si è insediato senza fatica a Raqqa come a Mosul


La rivolta delle destre. Parola d'ordine: rivedere il trattato di Schengen. 

I leader delle destre europee -Marine Le Pen, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Mike Hooken, Geert Wilders, Vlaams Belang e altri, a seguito degli attentati di ieri a Bruxelles chiedono un immediato cambio di strategia in materia di migrazione, integrazione e accoglienza. L'olandese anti-islamico Wilder vuole chiudere i confini nazionali. "Dobbiamo de-islamizzare l'Occidente- dice- è l'unico modo per tutelare le nostre vite e la nostra libertà".
Occorre dunque rivedere la politica di libera circolazione all'interno della zona Schengen? Vorrebbe dire cancellare con un semplice colpo di spugna il trattato simbolo dell'Europa Unita. E Angela Merkel, non ci sta!


Ieri ha detto :" La nostra forza sta nell'unione. Le nostre società libere dimostreranno di essere più forti del terrorismo".
A criticare il cancelliere tedesco, che da mesi si espone in favore dei profughi, ci si mette pure il Wall Street Journal
"Dichiarazioni di questo tenore- scrive il quotidiano Usa - piu' che rassicurare riportano alla mente le immagini degli attentati di Parigi dello scorso novembre e quelle degli epocali flussi migratori che per un anno si sono riversati sul Continente. E' proprio per questa politica di "porte aperte" e di "buonismo a tutti i costi" che il terrorismo islamico riesce a radicarsi in Europa e colpire selvaggiamente con stragi immani". E fino ad ora, per la verità, l'Europa si è dimostrata del tutto impreparata a difendersi dalla furibonda offensiva jihadista. Impreparata la politica, impreparata, anzi, inesistente la rete di Intelligence. 




Ma chi ha fornito le armi ai terroristi?

Proprio gli Stati Uniti, innanzitutto, finanziando, al tempo, i gruppi terroristici del Pakistan e armando i combattenti islamici (Mujaheddin) al fine di cacciare l'Unione Sovietica dall'Afghanistan. In proposito, sono note le rivelazioni di Hillary Clinton secondo la quale alla cacciata dei sovietici non seguì il promesso controllo  da parte degli Stati Uniti. Che, invece, lasciarono quel  territorio nella mani dei fanatici; super armati oltreché opportunamente addestrati. 
E' stato così che, terminata la guerra fredda, con lo spezzettamento dell'Unione Sovietica e la fine della contrapposizione Usa-Russia, nuove ambizioni si sono inscritte nella traiettoria degli equilibri internazionali. Gli Stati Islamici, è evidente, hanno alzato la bandiera della scissione, sono loro il nuovo emblema della dicotomia, dei blocchi contrapporti. Oriente-Occidente. 




L'oriente non è un blocco unito. Noi, uniti, possiamo farcela

Ma per quanto insistano i fondamentalisti nostrani, Islam non è violenza tout court. Un miliardo di persone di ogni razza, nazionalità e cultura praticano la fede islamica. Circa il 18% risiede nel mondo arabo, ma numerose minoranze risiedono nell’ex Unione Sovietica, in Cina, in America e in Europa. Alcune le conosciamo, ci vivono pacificamente accanto.
Ed è questo, secondo chi la pensa come me,  il momento di rafforzare i rapporti, di creare, finalmente, una vera unione tra gli Stati d’Europa. E' il momento di opporsi ai  tentativi di destabilizzazione, è l'ora delle  risoluzioni diplomatiche da contrapporre ai conflitti. La libera circolazione dei cittadini Europei tra gli Stati membri dell’UE non dovrebbe essere mai messa in discussione. Anche perché, egoisticamente parlando, favorisce noi Italiani. Buona parte  dei profughi, infatti, preferisce le Terre del Nord considerando il nostro Paese solo un punto di passaggio. E comunque, qualsiasi limitazione alla nostra libertà ci indebolirebbe davvero, avrebbe tutto il sapore della resa davanti al nemico.
D. Bart 

martedì 15 marzo 2016

Libia: un malloppo di 130 miliardi di dollari da spartire tra chi si finge nemico del Califfato


Quando nel corso di qualche incontro al vertice gli sguardi dei Capi di Stato s'incrociano, io penso male. Mi figuro sempre un' orgetta ammiccante; che in questo periodo, ad esempio, scorgo nel balenio di una precisa determinazione: sparare sulla Libia è assolutamente necessario.
La ragione spacciata, la più ovvia è quella di voler sconfiggere, incenerire il Califfato. In realtà, tutte le strategie belligeranti puntano ad interessi economici e geopolitici. La guerra di Libia, scoppiata nel 2011 per mano e volontà di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, con la fine di Gheddafi si è trasformata in un conflitto interno tra le tribù, le milizie e le fazioni l’Islam. Così le bombe, anzichè portare democrazia, hanno distrutto, annientato uno Stato che l'Onu poneva al primo posto, in Africa, nell'indice dello sviluppo umano.   
Questa guerra, perciò, è solo uno schifoso regolamento di conti, la spartizione del capitale tra i Paesi Occidentali interessati, e i due poli libici principali, in concorrenza per l’export di petrolio.



Tripoli - Tobruk. Qui si concentra una delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, a fronte  dell’11% dei consumi europei. 
Si tratta di un greggio di qualità, poco costoso, una manna per le compagnie in tempi difficili come questi. E al momento, ad estrarre i barili e il gas della Tripolitania è soltanto l'italianissima Eni. La cui posizione, faticosamente conquistata mediando tra fazioni e mercenari, non piace agli alleati i quali hanno deciso di porvi fine e, paradosso dei paradossi, pure con il nostro contributo militare.
Così l’ambasciatore Usa, John Phillips, sfacciatamente ci chiede  5mila uomini, addolcendo lo schiaffo  con la proposta di un comando militare affidato all'Italia. 
La Libia equivale, nell'immediato, ad un malloppo pari a 130 miliardi di dollari; tre o quattro volte tanto se un nuovo Stato libico tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi. 
Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della Banca centrale e del Fondo sovrano libico che sta a Londra dove ha studiato per anni  Seif Islam, il figlio di Gheddafi, attualmente in prigione. 

Anche i russi, estromessi nel 2011 perché contrari ai bombardamenti, avranno certo da dire la loro. Lo faranno, probabilmente, attraverso l’Egitto di Al Sisi al quale vendono armi insieme alla Francia. Al Sisi considera la Cirenaica una storica provincia egiziana.Insomma, ce n'è per tutti i palati.
La ricchezza delle risorse libiche, in base all'unico piano esistente, deve tornare sui mercati. Ovviamente supportato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, dell’Italia il guardiano della Tripolitania, della Gran Bretagna il guardiano della Cirenaica (Egitto permettendo). Il tutto, strategicamente supervisionato dagli americani.


Il piano, va da sé, non piacerà ai libici i quali, dopo aver fatto la guerra a Gheddafi ed essersi trucidati tra loro proprio per spartirsi le ricchezze energetiche, si ritroveranno più divisi e frammentati di prima. 
Ora, il Califfato non è uno scherzo da poco, ma gli sforzi per abbatterlo rappresentano solo un aspetto del conflitto. Analizzando bene fatti e sequenze, infatti, è evidente che l’Isis sia riuscito ad inserirsi ed espandersi proprio quando divampava la guerra per il petrolio. In un precedente mio intervento sulla questione libica raccontavo degli interessi occidentali, con il presidente francese Nicolas Sarkozy che attaccò Gheddafi senza nemmeno avvertire l'Italia con una semplice telefonata. 

Oggi sappiamo che in una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con una nuova moneta african.  Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi dove le ex colonie depositano  il 65% delle proprie riserve. Sporchi, concreti interessi: ecco che cosa indusse la Francia a bombardare la Libia.

D.Bart.

martedì 8 marzo 2016

LA BATTAGLIA IN TUNISIA E IL SILENZIO DEI TG.



SE 55 MORTI SEMBRAN POCHI (Il commento di Ulderico Piernoli)

Oggi a Ben Guerdane, al confine fra Libia e Tunisia si è svolta una battagli fra miliziani dell'Isis, esercito e forze di sicurezza tunisine. Bilancio: 38 terroristi (come li chiamano) eliminati, 6 feriti e catturati, 10 militari e agenti caduti, 7 civili e una bambina uccisi negli scontri. Tutto era cominciato all'alba con l'assalto alla caserma militare e al posto di polizia. Le reazione è stata pesante e immediata. Alcuni terroristi sarebbero sfuggiti e sono ricercati. Coprifuoco in zona dalle 19 alle 5. Queste le notizie che i tg italiani non hanno dato, parlandone solo di sfuggita nei servizi dalla Libia. Due cose appaiono rilevanti: la prima è la micidiale reazione dei tunisini. Li aspettavano o si aspettavano l'incursione? Forse hanno avuto anche appoggio di forze amiche (inglesi e tedeschi). E siamo al secondo punto: questo attacco segue quello di una settimana fa costato le vita a cinque terroristi, quattro dei quali tunisini. Evidentemmente stanno saggiando la permeabilità della frontiera in vista di un'evacuazione dalla Libia, ma potrebbero anche tentare di stabilire una testa di ponte o una prima base in Tunisia. Ma ai tg italiani tutto questo non frega un piffero. E poi diciamo di essere amici della Tunisia.