domenica 13 ottobre 2019

SIRIA. Assalto jihadista alle carceri. Chiesta dai Curdi una 'no-fly zone'. In galera chi condanna sui social l’attacco di Ankara.

SIRIA. Assalto jihadista alle carceri per liberare militanti Isis. I curdi chiedono una 'no-fly zone'. In galera chi condanna sui social l’attacco di Ankara in Siria



Il comandate delle Forze democratiche siriane (Fds), Redur Khalil, chiede alla comunità internazionale l'istituzione di una "no-fly zone" sul nord della #Siria affinché i curdi, attaccati da #Erdogan, possano “combattere una guerra con eguali opportunità contro la Turchia". Lo ha fatto parlando da una località segreta, attraverso il canale curdo Rudaw. Il comandante ha anche precisato che la difesa delle prigioni in cui si trovano i detenuti dell'Isis non sarà possibile, dal momento che i continui attacchi da parte della Turchia impongono, innanzitutto, la difesa del territorio.

Poche ora fa, i combattenti curdi della YPG impegnati sulle strade di Ras al Ayn, hanno riconquistato la maggior parte della città. In sostanza, tutte le zone perse ieri nell'offensiva dei miliziani filo turchi. È impossibile sapere con certezza quante vittime abbia fatto in pochi giorni, sia tra i civili che fra le forze combattenti, quella che Erdogan ha chiamato con sfrontatezza : operazione "Fonte di pace".
Confrontando voci concordanti possiamo parlare di 40 civili siriani negli ultimi tre giorni, mentre si calcola che siano già 130 mila gli sfollati fuggiti dai territori del Rojava attaccato da turchi.

È davvero difficile, in tali circostanze, presidiare anche i luoghi di detenzione di 12 mila militanti Isis, in particolare, le 20 prigioni dove sono tenuti i 1500 jihadisti più pericolosi. “Ci sentiamo traditi e dobbiamo combattere su due fronti, uno contro l’Isis e l’altro con la Turchia. Mantenere la sicurezza nelle prigioni dell’Isis non è più la nostra priorità. Il mondo si può occupare del problema Isis se davvero lo vuole».

Nel frattempo, dopo i cinque giorni di attacchi a terra sferrati della Turchia e dagli alleati arabi, lo Stato islamico si risolleva e insorge assaltando le prigioni per liberare i combattenti. In previsione c’è la riorganizzazione di un’armata in grado di riprendere il dominio del territorio.

Accusatorio nella sua essenzialità il commento del generale Mazloum Kobani: «Gli Usa ci hanno venduti, lasciati soli, al massacro». 


Havrin Khalaf

Simbolo tangibile di una strage feroce, annunciata dalla decisione di Trump che ritira le truppe Usa, arriva la notizia della morte di Havrin Khalaf, segretaria generale del partito per il Futuro della Siria. La donna è rimasta uccisa con un’autobomba esplosa a Qamishli, la città curda finita sia sotto il fuoco turco sia sotto il tiro dell'Isis, che ha rivendicato l'attentato. 
Havrin Khalaf guidava un Forum tribale delle donne e si batteva per una transizione democratica di una Siria rispettosa verso le minoranze e più distante dall'impostazione baathista. Sognava una Siria "multi identitaria", non violenta, pacifica nella risoluzione delle controversie, favorevole alll'eguaglianza tra uomini e donne. Una Siria rispettosa verso le risoluzioni delle nazioni Unite, "in particolare la risoluzione 2254, secondo cui tutte le fazioni del popolo siriano dovrebbero essere rappresentate nel processo politico, compresa la stesura di una nuova costituzione".

Le procure di Istambul contro la libertà di pensiero e d’espressione.

Sono 125, al momento, le persone arrestate in varie città della Turchia, colpevoli di aver condiviso sui propri account social post critici o contrari all’intervento sferrato da Ankara nel nord est della Siria. A diffondere notizie, aggiornando i numeri in diretta, ci pensa il ministro degli Interni, Suleyman Soylu, in persona. Gli ultimi 4 ordini di arresto sono stati emessi dalla procura di Istanbul.

Gli arrestati sono accusati aver diffuso post contenenti notizie false riguardanti la morte di bambini e civili, di aver utilizzato i propri account social per istigare odio nei confronti del governo, dello stato e delle forze di sicurezza turche, di aver fatto propaganda a favore dell'organizzazione terroristica curda Ypg, indicata da Ankara quale vero obiettivo dell'intervento militare turco.

Lo scorso 10 ottobre, anche i due segretari del partito filo curdo Hdp, Sezai Temelli e Pervin Buldan, oltre ad altri 3 parlamentari dello stesso partito, sono finiti nel registro degli indagati della procura di Ankara, con l'accusa di "propaganda a favore di organizzazione terroristica", a causa di post condivisi sui propri account social.

Sospensione della vendita armi all Turchia.

L’appello delle forze
democratiche siriane rivolto alla comunità internazionale comincia a dare qualche risultato. Dopo l'Olanda, anche la Germania e la Francia hanno sospeso le esportazioni di armi alla Turchia.
Un gesto importante alla vigilia del Consiglio Affari Esteri dell'Ue che dovrà decidere le sanzioni contro il Paese di Erdogan.
“Vista l'offensiva militare nel nord est della Siria - ha detto Il ministro degli Esteri, Heiko Maas - il governo non rilascerà altre nuove licenze per tutti gli equipaggiamenti militari che potrebbero essere utilizzati in Siria". Nel 2018 le esportazioni tedesche di armi in Turchia ammontavano a 243 milioni di euro, un terzo del totale delle esportazioni di armi.

Infine, Lega Araba ha chiesto alle Nazioni Unite di adottare misure per fermare l'offensiva militare e ritirare "immediatamente" le forze turche dalla Siria.

D.Bart.

lunedì 7 ottobre 2019

Trump avvalla l'invasione turca del nord della #Siria e abbandona i curdi che hanno sconfitto l'Isis a Raqqa


Il presidente degli Stati Uniti ha deciso di ritirare i mille soldati americani dalla Siria Settentrionale,
abbandonando così gli alleati curdi che,in prima linea nella lotta pluriennale contro l'ISIS, hanno ricoperto un ruolo decisivo nella riconquista di Raqqa e dei territori in mano al gruppo “Stato islamico”.(IS)
I combattenti curdi hanno ormai ripiegato nelle zone del nordest della Siria, protetti dai militari statunitensi, ma sempre sotto la pressione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che minaccia spesso un attacco contro le forze curde siriane legate al Pkk, il Partito dei lavoratori curdi di Turchia, suo nemico giurato.
Fino alla mattina del 19 dicembre, i mezzi d’informazione vicini a Erdoğan affermavano che si tratterebbe di un’offensiva “vitale” per la sicurezza della Turchia, criticando per l’ennesima volta il sostegno accordato da Washington ai curdi. Il ritiro statunitense è dunque un trionfo per Erdoğan e rischia di spingere i combattenti curdi tra le braccia di Bashar al Assad, con cui i ponti non sono mai stati completamente tagliati.
La decisione suscita sconcerto tra gli alti gradi statunitensi e provoca
l’imbarazzo della Francia, che mantiene circa duecento uomini delle sue forze speciali nella zona anche allo scopo di proteggere i curdi. Con il ritiro degli Stati Uniti, Parigi dovrà affrontare una situazione complicata

Da tempo Trump ha annunciato anche la sua controverità, e cioè che il gruppo Stato islamico è stato sconfitto, quindi verrebbe meno l’unico motivo della presenza dei soldati statunitensi nel paese.
Come d’abitudine, il Presidente ha annunciato attraverso Twitter la sua inversione di rotta, una mossa che piace alla base elettorale isolazionista e che presenta tutti i vantaggi di un disimpegno dall’ennesimo conflitto in Medio Oriente.

Effettivamente lo Stato Islamico ha perso il grosso dei territori che un tempo controllava in Iraq e in Siria, ma non è stato definitivamente debellato. La posizione di Trump ricorda il “missione compiuta” di George Bush in Iraq, seguito da molti anni di guerra.




Il disimpegno di Washington potrebbe scatenare il caos nella regione. Donald Trump non ha ascoltato i suoi consiglieri che non volevano privare gli Stati Uniti di un ruolo chiave nella definizione del dopoguerra in Siria.

Ritirandosi prima che sia trovata una soluzione politica, gli Stati Uniti lasciano alla Russia e all’Iran la possibilità di godere dei frutti del loro intervento decisivo a sostegno di Assad. Teheran e Mosca hanno dato il via libera alla Turchia, che ora potrà allargare la sua zona di sicurezza nel nord della Siria, a spese dei curdi.
Questa evoluzione sconvolge i sostenitori di una politica repubblicana classica a Washington, che continuano a ragionare in funzione di uno scacchiere politico-militare mondiale segnato dalla rivalità delle potenze. Evidentemente tutto questo non interessa affatto a Trump il quale, di fatto, da alla Turchia il via libera per massacrare 2 milioni curdi, fino a ieri alleati degli Stati Uniti. Gli stessi curdi che hanno combattuto a fianco degli americani contro l'ISIS.
Ritirando le forze statunitensi, Trump sta consentendo un altro massacro dei curdi. In questo senso, dalll’America, lo sfogo sui social è pressoché unanime. Eccone degli esempi da Twitter:

-One of the most shameful episodes of American history is about to take place: the genocide of our staunch former allies, the Kurds, in the fight against ISIS.
(Sta per aver luogo uno degli episodi più vergognosi della storia americana: il genocidio dei nostri ex fedeli ex alleati, i curdi, nella lotta contro l'ISIS.)

-Trump has destroyed our trust in the world. How can we allow kurds to get massacred after they fought ISIS for us. Trump is a dangerous disgrace and a national security nightmare. America will pay heavily in the future for these actions he has taken overseas. No one will trust us
(Trump ha distrutto la nostra fiducia nel mondo. Come possiamo permettere ai kurdi di essere massacrati dopo che hanno combattuto l'ISIS per noi. Trump è una disgrazia pericolosa e un incubo per la sicurezza nazionale. L'America pagherà molto in futuro per queste azioni che ha intrapreso all'estero. Nessuno si fiderà di noi)

D.Bart

domenica 6 ottobre 2019

Khalifa Haftar Salvatore della patria?

È probabile che alla fine Khalifa Haftar si prenderà la Libia, ma il suo obiettivo è entrare nella capitale come salvatore della patria contando sul supporto di una popolazione stanca del caos e su capi miliziani con la pancia troppo piena per voler combattere.
Non si tratta di uno scontro ideologico: le milizie raramente sono portatrici di una visione ideologica e in questo momento, peraltro, lo sono forse maggiormente alcune milizie salafite “makdalis” che operano all’interno del presunto esercito nazionale di Haftar (LNA) e che sono seguaci di un predicatore saudita. In generale prevalgono certamente interessi opportunistici ed è probabilmente ciò su cui punta Haftar: esercitare un potere di deterrenza tale da attirare a sé, o almeno nel campo della neutralità, diversi gruppi armati della capitale.
Il Generale gode del supporto economico emiratino, e probabilmente saudita, e di quello militare russo, che è presente in Libia con diversi mercenari del gruppo Wagner, ma anche sul supporto politico e probabilmente di intelligence dei francesi.
Haftar sta agendo nel suo stile: si dice pronto a trattare, si siede ai tavoli dei negoziati a stringere le mani ma poi agisce sul terreno mettendo la comunità internazionale davanti ai fatti compiuti. Sa benissimo di non avere grandi argini alla propria azione. Non nelle Nazioni Unite e nella comunità internazionale, che al di là delle dichiarazioni di facciata, esercitano un flebile, e nulla più che formale, supporto nei confronti di Fayez Serraj. Non negli Stati Uniti, lontani spettatori di questa crisi perlomeno dall’avvento dell’amministrazione Trump; e certamente non in una Unione europea che emette un comunicato non menzionando neppure il nome di Haftar e le sua responsabilità nel rischio di una evoluzione violenta della crisi ma che si limita a richiamare “tutte le parti coinvolte” al rispetto degli accordi. I miliziani hanno capito che il vento è cambiato e che il ruolo dei paesi del Golfo è sempre più influente e remunerativo, in Libia come in tutto il Nord Africa. Unione europea che emette un comunicato non menzionando neppure il nome di Haftar e le sua responsabilità nel rischio di una evoluzione violenta della crisi ma che si limita a richiamare “tutte le parti coinvolte” al rispetto degli accordi. I miliziani hanno capito che il vento è cambiato e che il ruolo dei paesi del Golfo è sempre più influente e remunerativo, in Libia come in tutto il Nord Africa.


Tuttavia, Haftar ha due vincoli: non dispone (ancora) di una forza militare così soverchiante per prendere militarmente la capitale; ma soprattutto, se vuole conservare una legittimità, interna e internazionale, non può permettersi un bagno di sangue. I tempi per un suo ingresso non appaiono ancora maturi. Finché Misurata, che dispone di uno spirito identitario da “città-stato”, difende la capitale, l’ingresso del generale resta difficile.
Haftar ha combattuto per anni prima di liberare Bengasi, ha già subito le prime perdite solamente affacciandosi ai sobborghi di Tripoli. L’azione costituisce una specie di bluff: gli serve soprattutto per capire chi è disposto a fargli la guerra e su chi invece può contare. Le trattative nel sottobosco continueranno, la sua propaganda finalizzata a descriverlo come “liberatore dalle forze terroristiche” pure. Il supporto internazionale che può vantare e un clima di generale appeasement nei  sui confronti lo favoriscono nel medio e lungo periodo. È consapevole che la sua credibilità dipenderà da come prenderà il potere: ciò avrà influenza sugli equilibri e gli interessi di tutti gli attori coinvolti, quelli interni e quelli internazionali.
Infine, un’ultima considerazione: anche ammesso che sia capace di guadagnare il potere in breve tempo e di conservarlo a Tripoli in un paese dalle istituzioni inesistenti, visto che ha 75 anni e pare non goda di ottima salute (è solo di un anno fa il suo ricovero parigino), questa presunta stabilità che porterà il generale in Libia quanto potrebbe durare?