mercoledì 26 aprile 2017

Negato il finanziamento per il muro con il Messico, ma Trump insiste: Si farà


    
I finanziamenti per la costruzione del muro tra gli Stati Uniti e il Messico non saranno inseriti nella manovra di aggiustamento di bilancio che deve essere approvata entro la mezzanotte di venerdì. Il passo indietro è arrivato dopo che i Democratici  avevano minacciato di bloccare il disegno di legge se il denaro fosse stato destinato alla recinzione.

La consulente del presidente Usa, Kellyanne Conway, ha confermato a Fox News che i fondi per il muro saranno tenuti fuori dal budget che deve essere approvato questa settimana, ma rimane una "priorità molto importante".
E Donald Trump ha precisato su Twitter che il progetto, fulcro della sua campagna elettorale, non si ferma: "Non fatevi dire dai media fasulli che ho cambiato idea sul muro". "Sarà costruito e fermerà droga e traffico di esseri umani", ha twittato il presidente americano.

Il progetto del muro anti-immigrati tra Stati Uniti e Messico "non solo è una cattiva idea", ma un'"azione ostile" che è "improbabile" raggiunga l'obiettivo di "fermare il flusso di migranti e di merci illegali negli Usa", ha affermato per contro il ministro degli Esteri messicano Luis Videgaray durante un incontro con i parlamentari, aggiungendo che il Paese non darà un centesimo per la  costruzione della barriera
Il ministro ha inoltre definito i piani per la chiusura della frontiera "uno spreco assoluto di denaro" e che il Messico avrebbe intrapreso azioni legali se i suoi confini verranno violati dalla recinzione. "Il muro non fa parte di una discussione bilaterale né dovrebbe esserlo", ha detto Videgaray. "In nessun caso - ha ridato - contribuiremo economicamente ad un'azione di questo tipo".

L'insistenza di Trump sulla costruzione di un muro di confine ha complicato le relazioni tra Messico e Stati Uniti, che erano diventate strette e cooperative in materia di scambi, commercio e sicurezza dopo decenni di indifferenza e reciproca diffidenza. Ora invece, ha precisato Videgaray, "se i negoziati su temi quali immigrazione, confini, commercio, non saranno soddisfacenti per gli interessi del Messico, il governo messicano valuterà una riduzione della cooperazione esistente, sopratutto nelle aree di sicurezza". Zone di estrema importanza, peraltro, dove operano le forze armate che supportano l'agenzia nazionale per l'immigrazione e la polizia federale.

D.Bart.

    

sabato 22 aprile 2017

NELLA TURCHIA DI ERDOGAN CHE UCCIDE LA LIBERTÀ DI STAMPA.

Il record di Paese con il più alto numero di giornalisti incarcerati lo batte la Turchia di Erdogan. Con 153 reporter in carcere, ad Ankara soggiorna forzatamente la metà di tutti i giornalisti arrestati nel mondo. Kurdi, turchi, scrittori, commentatori, fotografi, analisti: tutti rigorosamente  stranieri.

L'italiano Gabriele Del Grande è solo l’ultimo incarcerato in un paese che – a seguito del golpe del 15 luglio scorso – tiene sotto il controllo governativo ogni canale d'informazione.
Deniz Yucel, reporter del quotidiano Die Welt, cittadino turco e tedesco, è in prigione- e in isolamento- da circa due mesi. Accusato di di propaganda a favore del Pkk e incitamento alla violenza,
rischia 10 anni e mezzo di carcere. Per sottrarsi alla morsa del dittatore, la settimana scorsa Yucel ha sposato la fidanzata nella prigione di Silivri; ma a tempo di record il presidente Erdogan ha comunicato a Berlino che il giornalista non sarebbe stato estradato in Germania, come invece aveva richiesto il  Ministro degli Esteri tedesco che ha potuto fare visita a Yucel solo sette settimane dopo l’arresto.

«È un agente terrorista – ha detto Erdogan – Faremo il necessario, nell’ambito della legge, contro chi agisce come spia e minaccia il nostro paese da Qandil». Ovvero, dalle montagne irachene dove gli uomini del Pkk si sono ritirati quattro anni fa quando iniziò il breve processo di pace.
Il  caso di Yucel non è soltanto ingiusto dal punto di vista umano, civile e democratico. È anche la dimostrazione di quanto poco importi ad Ankara  dell’Unione Europea. Oggi Erdogan  protegge la Turchia come si fa con una terra sotto assedio: i nemici storici - esterni ed interni- sono sempre loro, i kurdi, decisi ed impegnati nell'indebolimento della nazione turca  per impedirgli di riappropriarsi del suo ruolo primario in Medio Oriente. Erdogan lo ha spiegato, ripetuto e urlato in ogni occasione.

L' ineluttabilità dell'uomo forte alla guida di uno Stato in pericolo è dunque il presupposto per sopprimere sul nascere  qualsiasi sospetto tentativo di indebolimento. Ed è anche il principio su cui poggiano le tesi dei reati contestati ai giornalisti arrestati e imprigionati.

Soffocare, ridurre al silenzio le poche voci critiche rimaste, richiede perciò il ricorso all'unico strumento per ora possibile: la galera. Il passo successivo contemplerebbe persino la sopressione fisica, che abbiamo già visto in Egitto con il caso Reggeni. Tanta galera, dunque: una settimana fa il procuratore di Istanbul ha chiesto tre ergastoli a testa per 16 dipendenti del gruppo editoriale Zaman. Tra loro, la  commentatrice Nazli Ilicak, il giornalista e scrittore Ahmet Altan e il professore di economia  Mehmet Altan. Tre nomi altisonanti dell'informazione turca, accusati di voler rovesciare l’ordine costituito, il governo e il parlamento tramite il sostegno alla rete dell’imam Gülen, considerato la mente dietro la fallita insurrezione di luglio.

La stessa procura ha chiesto pene da 15 a 43 anni per 19 giornalisti del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, un giornale che oggi non esiste più. Scandalosi anche i casi dell’ex direttore Dundar e il caporedattore Gul, condannati in primo grado a cinque anni per il reportage che svelava i legami dei servizi segreti turchi con gruppi islamisti in Siria. Ora finisce sotto processo anche il resto della redazione: il direttore Sabuncu, lo scrittore Sik, il vignettista Kart e l’editore Atalay.
19 giornalisti,  tutti accusati contemporaneamente di sostegno all’islamista nazionalista Gülen e di appoggio al movimento di liberazione kurdo Pkk. Due soggetti lontanissimi tra loro, ideologicamente  opposti, ma infilati nel medesimo calderone del terrorismo contro lo Stato. La procura parla di «tattiche di guerra asimmetrica, intense operazioni di percezione che hanno preso di mira il governo e il presidente».

Le condanne emesse fino ad ora non poggiano nemmeno su una sola prova valida da sventolare all'opinione pubblica. Eppure la scure  che abbatte  la libertà di stampa non solleva la minima critica da parte di Bruxelles, impegnata com'è a stringere accordi miliardari anti-rifugiati con lo Stato turco.

In conclusione, con quasi 200 siti, agenzie, quotidiani, tv e radio chiusi per ordine governativo, e 153 reporter in carcere, il lavoro dei media in Turchia è morto e sepolto. La parola di Erdogan domina - o sostituisce- l'informazione.
D. Bart.

giovedì 6 aprile 2017

TRUMP RISPONDE ALLA STRAGE DI IBLID: 59 MISSILI TOMAHAWK CONTRO UNA BASE AEREA SIRIANA.


Dopo la strage provocata dall'uso di armi chimiche ad Iblid, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di sferrare un attacco militare contro Bashar al-Assad.
Il Presidente della Siria è infatti accusato di aver usato i gas tossici che nei giorni scorsi hanno provocato la morte per soffocamento di numerosi civili. Si parla attualmente di 86 morti tra i quali 30 bambini e 20 donne. Il bilancio, però, è destinato ad aumentare perché i feriti sono centinaia, alcuni dei quali in gravi condizioni. La zona colpita è situata in una provincia controllata per intero da gruppi armati anti Assad e dove è molto forte la presenza di Hayat Tahrir al Sham, una fazione considerata l’erede di Jabhat al Nusra, divisione siriana di al Qaida.
Le versioni sull'accaduto sono diverse, variamente sostenute dal governo siriano, dalla Russia o da cronisti internazionali. Secondo alcuni, l'esercito siriano avrebbe bombardato un deposito di armi in dotazione ai ribelli, facendo esplodere delle armi chimiche. Secondo altri, lo stesso Assad sarebbe responsabile diretto del massacro.

Quindi il dilemma:armi chimiche usate da Assad, oppure armi chimiche dei ribelli esplose durante un raid del governo siriano?

Trump, dichiaratamente e oggettivamente decisionista, detto dilemma lo ha risolto  con un bombardamento "una tantum".

Navi americane di stanza nel Mediterraneo hanno lanciato 59 missili  'Tomahawk' contro la base militare siriana di Shayrat.
La tv di Stato siriana parla di "aggressione" Usa e di "perdite" mentre il Pentagono di "risposta proporzionata". Le vittime dell'attacco americano sarebbero 5: tre soldati e due civili. Lo ha detto Talal Barazi, il governatore della provincia di Homs, aggiungendo che altre 7 persone sono rimaste ferite.

"Nessun bimbo deve soffrire in quel modo, i paesi civilizzati mettano fine al massacro" ha detto il presidente americano, secondo il quale i raid missilistici sono nel "vitale interesse della sicurezza nazionale".

Sull'esempio di altre grandi raffinate "teste", Trump ha deciso così di esportare un po' di democrazia. Con i missili, ovviamente. Perché quei bambini "tanto belli", che il presidente non vuole in casa sua, conviene bombardare a casa loro.

La logica dei folli fa mai una grinza, è perfetta.

Israele: noi al fianco di Trump.
 
"Israele supporta pienamente la decisone del presidente Trump", afferma un comunicato dell'ufficio del premier Benjamin Netanyahu.

Diversa, ovviamente, la posizione di Mosca che parla di "azioni sconsiderate"

- Il Comitato di Difesa della Duma di Stato russa afferma che l'attacco missilistico degli Stati Uniti contro la Siria potrebbe peggiorare i rapporti tra Mosca e Washington, e  portare, inoltre, ad un ampliamento dei conflitti armati in Medio Oriente.  "Queste sono azioni irresponsabili, sconsiderate", dice una nota diffusa da Mosca, che chiede con urgenza che si riunisca il Consiglio di sicurezza dell'Onu.

D.Bart.