sabato 28 maggio 2016

IL MASSACRO SAUDITA SUBISCE UNO STOP. MA IN UN ANNO DI GUERRA NESSUNO HA GRIDATO :”JE SUIS YEMEN”,




Il cessate il fuoco scattato il 10 aprile per il momento sembra reggere. Forse questo è davvero il punto di partenza, l’avvio verso la pace dopo il lungo anno di guerra che squassato, sfregiato lo Yemen da cima a fondo. I colloqui in Kuwait, che hanno impegnato il governo formale del presidente Abe Rabbo Mansour Hadi con i suoi alleati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita compresa) da una parte, e i ribelli Houthi con il loro alleato Ali Abdullah Saleh, ex presidente dello Yemen dall’altra, dovranno proseguire per raggiungere un serie di obbiettivi. Che implicano: l’annullamento delle sanzioni ordinate dalle Nazioni Unite su Saleh; il disarmo di tutte le parti in lotta; la governabilità e suddivisione del Paese, se federato in sei province o, più probabilmente, nuovamente diviso in Yemen del Nord e del Sud. Gli yemeniti tirano finalmente il fiato, si concedono un sospiro di sollievo dopo gli orrori visti e subiti  a cominciare dalla quella notte tra mercoledì 25 e giovedì 26 marzo 2015 quando nel mondo scoppiava ufficialmente una nuova guerra. Aerei dell’Arabia Saudita e di altri paesi arabi bombardavano le postazioni in Yemen dei ribelli sciiti Houthi, che nelle ultime settimane avevano preso il controllo della capitale Sana’a e di altri territori nell’ovest del paese. L’inizio, per uno scempio di vite umane che si è consumato nel silenzio colpevole e vile della comunità internazionale


La storia di un giorno qualunque in un anno di guerra

Un giorno d’ordinario massacro. Decine di bambini vengono  annientati dai missili di Riad, nell’ora di punta al mercato di Mostaba, il più grande e frequentato della regione di Hajja. Un’area situata a chilometri di distanza dagli obbietivi militari, eppure è proprio li che il massacro si ripete. Nei luoghi dell’innocente, incolpevole quotidiano, nelle case e nelle strade, per irrompere poi, macabra scena, sugli schermi delle Tv. Al-Masirah, emittente vicina al movimento sciita degli Houthi, trasmette orrori che occhio umano difficilmente può sostenere, ma anche il solo sapere dovrebbe quanto meno 

indignarci.
Perché fra i cadaveri carbonizzati ci sono centinaia di ragazzini, una moltitudine di garzoni che sopravvivevano facendo consegne e altri lavoretti per conto del mercato, che ormai è un ammasso di macerie. In Occidente certe notizie arrivano quando i morti raggiungono un numero consistente - facciamo un centinaio toh- ma in pochi se ne occupano, e con scarso interesse. Nessuno che organizzi una manifestazione o alzi un cartello per ribadire: “Je suis Yemen”. Del resto che importa. Per gli yemeniti ogni levar del sole annuncia una consueta giornata di guerra. Va avanti così da un anno, dal marzo del 2015: sotto i missili di Riad sono crollate scuole, mercati, fabbriche, case. 



Ma la catastrofe più grande è rappresentata dai morti: 6mila? 8mila? 10mila. Chi li conta Più! Le parti in conflitto -  la coalizione guidata dall’Arabia Saudita, da una parte, e i ribelli sciiti Houthi dall’altra -  prendono di mira obiettivi civili, tanto che alcune organizzazioni internazionali cominciano ad ipotizzare il reato del crimine contro l’umanità. Una carneficina che ancora non ha piegato la resistenza della popolazione yemenita. E l’Arabia Saudita, nonostante l’aggressione disumana e furente, non riesce a riportare al potere, come vorrebbe, l’ex presidente sodale Abd Rabbuh Mansur Hadi. Anzi, per Riad, capitale dell’Arabia Saudita, questa offensiva è una catastrofe che sta erodendo le casse statali. Mentre a comunità internazionale tace, vergognosamente! Finge di ignorare gli errori commessi in quel disastroso 2011quando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo accompagnando la primavera araba yemenita verso una promessa di democrazia gestirono il passaggio del potere da Ali Abdullah Saleh al suo vice Abd Rabbuh Mansur Hadi. L’accordo, che concedeva a Saleh l’immunità, ha evidentemente ferito le varie anime del Paese acutizzando differenze etniche, religiose, politiche. 

La millenaria lotta tra Sunniti e Sciiti

E’ scoppiato, insomma, quello scontro che incombe da 36 anni da quando cioè l’avvio della teocrazia Khomeinista a Teheran ha spaccato il mondo arabo in due superpotenze in lotta tra loro: l’Arabia Saudita - spalleggiata dagli Usa e da tutto l’Occidente - da una parte, l’Iran dall’altra. Sunniti contro Sciiti.Due visioni della vita e del potere basate sull’interpetazione del Corano inconciliabili tra loro, eppure entrambe votate all’integralismo: non è un caso se le prime vittime del jihadismo sunnita dell’Isis siano proprio i musulmani sciiti.

La soluzione federale



Approvata all’inizio del 2014 con la divisione del Paese in sei nuove regioni (Hadramout, Saba, Aden, Al Janad, Azal e Al Hodeida, con uno statuto speciale per la capitale Sanaa), ha avuto l’effetto di scontentare contemporaneamente gli sciiti Houthi del nord e i movimenti indipendentisti del sud. I primi hanno respinto il piano federale che ha assegnato le aree a prevalenza sciita alla regione montagnosa dell’Azal, povera di risorse e senza sbocco sul mare. I secondi, invece, hanno bocciato il piano considerandolo sbilanciato a favore del nord, che ha conservato quattro regioni federali ottenendo anche gli importanti bacini petroliferi sottratti alla regione di Hadramout. Lo stesso governo di unità nazionale formato da Hadi fino alla rivolta degli Houthi è stato accusato di aver mantenuto troppi legami con gli uomini di Saleh. E mentre Francia e Stati Uniti, responsabili del riassetto politico e militare del Paese, hanno ingaggiato una scarsa lotta contro i qaedisti, lo Yemen si è frantumato. Gli Houthi hanno preso il potere a Sanaa costringendo Hadi a fuggire a Riad. E in questo anno di guerra lo Yemen è divenuto ostaggio degli interessi delle potenze regionali: i sauditi sunniti da una parte e gli iraniani sciiti dall’altra. 

IL DRAMMA DEI PROFUGHI.

Più di 173 mila yemeniti hanno lasciato il Paese per trasferirsi nelle nazioni vicine: Oman, Arabia Saudita, Etiopia, Eritrea Sudan. In particolare, sono difficilissime le condizioni degli yemeniti rifugiati in Somalia. A Gibuti in 33 mila sono ospitati in un campo poco attrezzato, costantemente arroventato dal sole a picco, e posizionato in una zona dove le scorribande di iene e sciacalli spaventano i bambini, i più piccoli, denutriti e affamati. 




I dati dell’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati parlano di 28.596 yemeniti arrivati in Somalia solo nei primi mesi del 2015. Tra loro 12.000 bambini, il cui pianto inconsolabile riempie il centro di accoglienza di Berbera dove possono sostare solo tre giorni.
Senza cibo e a piedi nudi transitano quindi verso Gibuti. Una moltitudine di persone sfigurate dagli stenti, dalla paura, dalla disperazione.Li abbiamo dimenticati sotto il fuoco della bombe. Rischiano di morire, dimenticati, nelle sabbie roventi del deserto.

D. Bart
  




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